Recensione su Indivisibili

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Fiori di campo / 3 Ottobre 2016 in Indivisibili

(Sette stelline e mezza)

Fuori dal tempo e dallo spazio, le gemelle siamesi protagoniste del film sono fiori di campo costretti malamente in una serra: i loro nomi, uno dei quali è imperfetto, storpiato (Dasy e non Daisy -Margherita-, altrimenti corretto contraltare anglofono di Viola), richiamano proprio la loro natura innocente ed incolpevole a contatto con un mondo involuto e grezzo, in cui l’apparenza è regina.
Cresciute in mezzo ad un’abiezione morale mascherata da Timor di Dio e contaminata dalla superstizione e da un generale stallo intellettivo particolarmente increscioso, le protagoniste sono il veicolo della rappresentazione dei concetti di condivisione e connessione empatica. Vittime della loro peculiarità, le due ragazze dubitano anch’esse del “potere” dei centimetri quadrati di pelle che le uniscono: certo, non gli attribuiscono i poteri taumaturgici in cui il volgo pretende di credere, fino a concepirle definitivamente come Marie Addolorate, ma vengono colte dal dubbio che eliminare l’epidermide e i vasi capillari in comune corrisponderebbe ad una loro completa separazione, ad una perdita reciproca. Quanto e come una coppia di sorelle, ancor prima che gemelle, può considerarsi inscindibilmente unita o meno? La libertà fisica, segnata dalla cesura della pelle, potrebbe corrispondere ad una divisione delle anime?

Sceneggiato da Nicola Guaglianone, già collaboratore di Gabriele Mainetti, per cui ha scritto i cortometraggi Basette e Tiger Boy e lo script di Lo chiamavano Jeeg Robot, anche questo film parla, seppur in maniera “curiosa”, di (anti)eroi e superpoteri (le emozioni di una gemella si riflettono, realmente o per abitudine alla suggestione, sull’altra; se una mangia troppo, l’altra ha mal di stomaco; ecc.).
Pensando ai lavori di Matteo Garrone, con cui il film di De Angelis condivide l’evidente passione per la rappresentazione dei barocchismi e delle contraddizione di stampo partenopeo (vedi, in primis, L’imbalsamatore e Reality), in cui coesistono ostentazione del possesso e decadenza, questa pellicola potrebbe rientrare nell’alveo del “cinema fiabesco”.
Il lavoro di De Angelis è visivamente molto efficace (anche grazie alla scelta estremamente azzeccata delle brave e belle protagoniste, le sorelle Angela e Marianna Fontana), ma pecca di alcune ingenuità narrative (forse, dovute ad un montaggio “distratto”) e di didascalismi, anche visivi, evitabili (per esempio, il prete apertamente sui generis o le banconote arrivate dal mare appiccicate alla statua del Cristo in processione come ex voto).
Per il resto, si tratta di un film a suo modo impressionante, potente e viscerale, poeticamente disperato.

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