M / 29 Novembre 2019 in Lo specchio della vita

Dietro l’apparenza di classico mélo hollywoodiano, Douglas Sirk imbastisce in realtà un film di incredibile complessità e raffinatezza, molto più politico e drammatico che rosa. Il conflitto parallelo tra due madri e le rispettive figlie, dovuto a motivi diversi, e soprattutto il tema del razzismo sono i due veri assi portanti della pellicola, molto più che la storia d’amore tutto sommato scontata (e a cui infatti Sirk non dedica molto tempo, giusto quello necessario per far capire cosa succede).

Il razzismo, eh sì, bruttissima gatta da pelare, oggi come allora. Anzi, probabilmente allora ancor più di oggi: ed è (anche) qui che sta la grande brillantezza dell’impianto messo in moto dal regista tedesco (peraltro qui all’ultimo film americano, prima di tornare nella natia Germania): non ci sono né gli stereotipi né le facilonerie così tipici di chi guarda a un problema così grosso dall’esterno (il bianco), cosa tutt’altro che scontata negli anni ’50, ma per fortuna non ci sono neanche i buonismi e le semplificazioni di molta filmografia (e letteratura) antirazzista: Sirk mette in scena un conflitto, un conflitto che porta all’impressionante squalificazione dei sentimenti in nome di una vita migliore: il ripudio della propria identità di ragazza nera che vuole essere bianca, che non vuole più “servire, fare la cuoca, entrare solo dalla porta sul retro”. Conflitto ancor più straordinario perché irrisolto, irrisolvibile persino dalla livella della morte, che prima sembra portare al perdono (o alla richiesta di scuse) per poi dirigersi all’ambiguissima scena finale con Sarah Jane (Susan Kohner, splendida) appoggiata al petto di Lora (Lana Turner, splendida) e che pare volerci mostrare una sostituzione dei ruoli, una nuova madre bianca che ponga fine definitivamente al martirio razziala della giovane ragazza. Potentissimo.

Come potentissimi sono i mezzi tecnici adoperati nella messa in scena: il profilmico ironico e beffardo della scena in cui la madre di colore Annie (una splendida, anche lei, Juanita Moore) parla disperata all’amica (e datrice di lavoro) Lora mentre sul comodino una foto sorridente della figlia scappata di casa frantuma la conversazione, macchiandola di sadismo; e i modernissimi salti nel montaggio, soprattutto nella seconda parte, con improvvisi sbalzi in avanti temporali che costringono lo spettatore a tenere sempre la concentrazione al massimo per non perdersi nell’intricato intreccio e allo stesso tempo rendono fluidissima la narrazione; e poi il funerale, di bellezza struggente senza bisogno di parole, solo con un perfetto connubio di immagine musica e rumore, almeno fino all’arrivo di Sarah Jane.
E a proposito dello sguardo esterno di Sirk, in un film pressoché votato al femminile (il bravo John Gavin nella parte di Steve, per quanto importante, rimane in un ruolo minore rispetto alle due madri e le due figlie) si dimostra anche in questo caso capace di raccontare l’altrui senza luoghi comuni, cliché o ammiccamenti.

Un film poderoso, accolto malamente dalla critica all’uscita (considerato come una soap opera da alcuni, strano modo di guardare un film del genere), giustamente riabilitato nei decenni seguenti, è oggi uno dei grandi classici del cinema americano. Bene che sia così.

P.S. Piccola nota a margine: poco dopo la metà del film Lora va per un certo periodo in Italia a girare un film con l’importante regista Fellucci, evidente richiamo a Fellini, che nel ’59 aveva già vinto due dei suoi quattro oscar. Così, una simpatica curiosità.

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