Recensione su Il Posto

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19 Luglio 2012

Domenico, un ragazzo con l’aria dello sbarbatello timido e impacciato, si trova ad affrontare una serie di esami per conquistare il suo posto fisso in una grande azienda, un “posto per tutta la vita” (eh sì, tanto tempo fa esistevano queste cose inverosimili). Durante i vari colloqui conosce Antonietta e se ne innamora, cercando con difficoltà di allacciare un rapporto.
Un film per certi versi tranquillo e monotono come la vita quotidiana degli impiegati che lo popolano, ma al contempo inquietante e terribile nella sua normalità. Vi si trovano già la spersonalizzazione dei lavoratori, l’alienazione di chi lavora in un colosso industriale, lo spopolamento delle campagne verso le metropoli, l’impossibilità di creare legami affettivi in un ambiente totalmente funzionale al lavoro, la mediocrità degli ominuccoli che attendono anni per un piccolo avanzamento di carriera, la meschinità dei capoccia che comandano impiegati che nemmeno conoscono e che non si degnano neanche di guardare in faccia, il grigiore e la schiavitù di una vita il cui tempo è tiranneggiato dai turni imposti dal capitale. E tutto questo molto prima che in Italia e nel mondo scoppiasse la contestazione e che registi come Petri proseguissero lo stesso discorso con più ferocia e impegno politico. Per chi si sia trovato in contesti di lavoro simili non sarà difficile identificarsi col ragazzo e tifare per lui e la sua infantile innocenza. Deliziosa la scena del ballo di fine anno, in cui il tenero protagonista richiama la figura malinconica di Buster Keaton, rinchiusa nel suo mutismo con tanto di paglietta sulla testa e mazzo di fiori in mano. La giovane e bella ragazza di cui si invaghisce Domenico diventerà in seguito moglie del regista Ermanno Olmi (e come biasimarlo?).

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