Recensione su Il giocattolo

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Il logorio della vita moderna / 11 Maggio 2016 in Il giocattolo

La vicenda raccontata da Montaldo in questo film ha un duplice valore: si fa racconto metacinematografico, citando indubbiamente il filone machista dei poliziotteschi italiani e dei vari giustizieri della notte bronsoniani d’oltreoceano, ma, tenendo presente anche questo aspetto, mette in mostra radici oserei dire documentaristiche, dal forte sapore antropologico.
Girato e ambientato alla fine degli anni Settanta, in un’Italia segnata da un clima generale fortemente inficiato dal terrorismo, il film ha per protagonista un uomo qualunque, mite e mediocre (nel senso originario del termine, cioè a metà strada tra due grandezze), che vede in una propria inaspettata dote (l’abilità con le pistole) una forma di riscatto personale su scala comunitaria.

Letteralmente, il cittadino si ribella.
Ma, benché nel film non manchino episodi di delinquenza violenta, nello specifico l’uomo-medio non si ribella ad una forma di criminalità “evidente”, come invece accade negli esempi cinematografici citati: sentendo il peso del ferro tra le mani, beandosi della forza che l’arma sembra trasmettere al proprio animo, l’anonimo Vittorio Barletta (un eccellente Nino Manfredi) comprende per la prima volta cosa significa trovarsi in una posizione di superiorità, conosce il potere e si illude di poter ribaltare il proprio destino, legato ad un impiego mediocre e ad una moglie amata, ma debole e malaticcia (Marlène Jobert).
Benché le premesse siano diverse, come non trovare grosse affinità con il pressoché coevo e tragico sig. Vivaldi (Sordi) di Un borghese piccolo piccolo di Monicelli?

Se la prima parte del film, quella forse più riuscita, descrive con pennellate veloci, essenziali e realistiche il protagonista e il contesto in cui vive, la seconda metà assume toni quasi grotteschi, oserei dire kafkiani, interessanti ma non sempre completamente azzeccati (vedi, in particolare, la seduzione ad opera della viziata e cinica figlia del capo del Barletta, un arrogante ma a suo modo divertente Arnoldo Foà).

Il finale tragicamente inaspettato riporta bruscamente l’attenzione sul contesto sociale e sull’alienazione diffusa nel mondo contemporaneo, dove nessuno sembra più porsi domande né interessarsi a cosa accade al proprio vicino, neppure quando sente esplodere nel buio della notte un colpo di pistola.

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