Recensione su I pugni in tasca

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Famiglia in dissolvenza / 27 Novembre 2016 in I pugni in tasca

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Al suo esordio nel mondo del lungometraggio, il giovane Bellocchio diede vita con risultati narrativamente ed esteticamente notevoli ad una torbida metafora sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta, una parabola critica sulla struttura della famiglia tradizionale che, però, pur letta in un’ottica pre-sessantottina, non può essere intesa solo come evento profetico di un mutamento sociale in fieri: l’opera di Bellocchio, particolarmente complessa, analizza l’ipocrisia che sovente aleggia intorno al concetto di “famiglia” (intesa come nido pacifico e intoccabile) e l’anacronismo insito nella sua rappresentazione classica.

La cecità e l’abbandono passivo di una madre fisicamente debole e moralmente evanescente e l’assenza completa del padre, mai neppure nominato, simulacri di una forma sociale completamente svuotata di qualsiasi valenza, sono i perni su cui si costruisce l’ambiente profondamente malsano della famiglia protagonista: come una sorta di male interiore, di cancrena occulta, il naturale sentimento di ribellione giovanile dei giovani componenti del nucleo famigliare esacerba malattie congenite (l’epilessia e, in Leone, forse anche una forma di ritardo mentale) e turbamenti sessuali (l’incesto di Giulia con Augusto e, ancor più, con Alessandro è palese), prendendo pericolose derive sociopatiche e criminali.

Ad eccezione del silenzioso e quasi invisibile Leone, alcuno dei rampolli della nota famiglia delle campagne piacentine (il padre era avvocato, Augusto potrebbe aver compiuto analoghi studi, ma, ora, la loro notorietà nei dintorni è legata esclusivamente alle loro sfortune, alla loro “malattia”) è incolpevole dei propri atti: la follia che li caratterizza è lucida, calcolatrice e, perciò, terribilmente spaventosa, anche quando sembra essere connessa ai rispettivi e comprensibili aneliti di affrancamento dall’ambiente famigliare e dalle convenzioni sociali ad esso legate.
In particolare, Alessandro è votato ad una progressiva eliminazione degli elementi deboli della famiglia, intesi non tanto come un peso economico (quel tipo di riflessioni sono appannaggio di Augusto), quanto come un fardello psicologico, un blocco materiale e mentale che sembra impedirgli di portare a termine un progetto personale.
Pur dotato di intelligenza e di una particolare forma di acerba sensibilità che lo rende ora odioso, ora struggente, Alessandro non intende crescere in maniera convenzionale, si ostina a dichiararsi infelice e a ficcare metaforicamente i pugni nelle tasche, come un ragazzino che controlla a stento il proprio disappunto: il soddisfacimento dei suoi appetiti sessuali è legato al paragone con quelli del fratello (non a caso, sceglie per sé la stessa prostituta frequentata da Augusto e la mostra a Giulia), non ha voglia di diventare socialmente adulto (non vuole lavorare e, da bambino crudele qual è, desidera prendere la patente automobilistica solo per avere la possibilità di mettere in atto lo sterminio della sua famiglia), non è in grado di allontanarsi dalla casa in cui è nato e cresciuto ma che sarebbe disposto a distruggere, come dimostra il falò degli oggetti posseduti dalla madre, borghesi e “poveri” (vecchi, malridotti) allo stesso tempo.

L’immensa casa di architettura e distribuzione ottocentesca (Piero Chiara userebbe l’aggettivo “garibaldina”) è labirintica, soffocante, zeppa di cose ed oscura come le menti deviate dei suoi occupanti: dalle pareti occhieggia un numero imprecisato ma decisamente considerevole di ritratti di avi perlopiù sconosciuti, inquietanti e malevoli nella loro composta fissità. Ogni atto dei giovani di casa (l’ultima, maledetta generazione che, probabilmente, alla luce dei fatti raccontati, abiterà l’edificio) è soggetto al silenzioso (pre)giudizio e biasimo delle genti passate.

Una nota sulla scelta dei nomi dei quattro fratelli, che non mi è parsa affatto casuale, non tanto per la formazione culturale classica del padre avvocato: i nomi di Augusto, Giulia, Alessandro e Leone riecheggiano personalità e titoli altisonanti, che riportano immediatamente alla memoria dello spettatore la storia romana, ma anche quella della Chiesa cristiana, tra imperatori e papi, potere e dissolutezza. Nomen omen.

6 commenti

  1. Nadja / 1 Ottobre 2018

    non so se lo sai ma Bellocchio ha dichiarato che aveva girato scene più esplicite dell’incesto ma cha la censura le ha tagliate.
    Vedendo i vari film del regista, credo che non sia più riuscito a raggiungere con i suoi altri film(molti dei quali davvero belli) il livello di questa opera prima

    • Stefania / 1 Ottobre 2018

      @elisa1996: non lo sapevo, grazie! 🙂 Nel complesso, conosco poco la filmografia di Bellocchio, ma i film che ho visto mi sono piaciuti tutti. Questo, in effetti, mi sembra diverso dagli altri, gli riconosco una potenza che, per ora, non ho ritrovato in altri suoi lavori.

      • Nadja / 1 Ottobre 2018

        questo film ha dietro un’esigenza di raccontare di urlare qualcosa e secondo me si sentono i 25 anni del regista in tutto dalla scelta del tema stesso: famiglia opprimente.
        Lo stesso Bellocchio viene da una famiglia numerosa, e sua madre era inferma quindi c’è molto del suo vissuto in ciò.
        Poi ripetersi o superarsi quando il tuo inzio è così è veramente difficile.

        • Stefania / 2 Ottobre 2018

          @elisa1996: esatto, ha l’ “esigenza di raccontare, di urlare qualcosa”. So che la famiglia aveva finanziato il film (se non ricordo male, la maggior finanziatrice sia stata la nonna 🙂 )

  2. Nadja / 1 Ottobre 2018

    @Stefania dopo questo quello che ho preferito è vincere

    • Stefania / 2 Ottobre 2018

      @elisa1996: chefffilm… Il mio primo Bellocchio è stato Buongiorno, notte (che emozione, la scena finale), quindi credo che il mio preferito sia quello.

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