Recensione su Hotel Artemis

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Premesse non mantenute / 6 Luglio 2019 in Hotel Artemis

Hotel Artemis ha premesse eccellenti.
Jodie Foster in primis. Non la vedevo dai tempi di un altro sci-fi, Elysium (2013) di Neill Blomkamp, ed ero curiosa di trovarla in un film di fantascienza dagli accenti catastrofici come questo, in un ruolo abbastanza inedito per lei. La storia si svolge all’interno di un hotel in stile “art déco steampunk” di una Los Angeles dell’imminente futuro e, qui, la Foster alias The Nurse (L’Infermiera) accoglie e cura i criminali che, a fronte del pagamento di un’iscrizione, possono usufruire delle sue competenze mediche quando sono gravemente feriti e in pericolo. Solo gli iscritti sanno cosa sia l’Artemis, dove si trova esattamente, come accedervi e cosa succede al suo interno. In questo senso, l’Artemis ricorda un po’ la formula dei luxury hotel per manigoldi di John Wick, per capirci.

Scritto e diretto da Drew Pearce, sceneggiatore di No Heroes, una serie tv cult in Gran Bretagna, e di film come Iron Man 3, Mission: Impossible – Rogue Nation e il prossimamente al cinema Fast & Furious – Hobbs & Shaw, Hotel Artemis mischia mood à la Suicide Squad (l’ensemble di antieroi con la fedina penale sporchissima) con quelli simil-La notte del giudizio (futuro distopico con rivolte violente) e, inevitabilmente, le varie “fughe metropolitane” di Carpenter. Nelle strade, il finimondo. Dentro l’hotel, quasi.
All’interno dell’Artemis, infatti, oltre a The Nurse e al suo forzuto assistente Everest (Dave Bautista), si ritrovano un paio di rapinatori (Sterling K. Brown e Brian Tyree Henry), una killer professionista (Sofia Boutella), un antipatico riccone (Charlie Day) e, in arrivo dall’inferno, il proprietario dell’albergo (Jeff Goldblum) e suo figlio (Zachary Quinto).

Come dicevo, le premesse del film di Pearce sono eccellenti, pura goduria per gli amanti dei fumetti e degli action con i superbadass divertenti, e, fin dai primi fotogrammi, esse sembrano supportate anche da precise scelte tecniche che escludono (quasi) totalmente gli effetti visivi digitali, privilegiando una messinscena volutamente “cartonata”, un po’ come nei film di Del Toro, con scenografie d’atmosfera costruite in studio, debita attenzione a trucco e parrucco (l’invecchiamento posticcio della Foster è perfetto) e scarsissimo ricorso alla computer graphic.
Strada facendo, però, il mordente evapora e la sceneggiatura (alquanto zoppicante) mostra ampiamente tutti i suoi limiti (su cui non intendo affatto dilungarmi: finirei per raccontare l’intero film).

Peccato.
Anche per la Foster.

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