ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Sullo sfondo di una società con caratteri vaghi e accennati di distopismo, forzatamente si segue il tran tran di questo tipo, Monsieur Oscar, ma solo perché tutti lo chiamano così, lequel passa la giornata a interpretare parti scritte su appositi fascicoli da studiare ogni volta, a bordo di una white limo/camerino di ArturoBrachetti, dove una signora autista/segretaria lo attende, ciba, sposta come un pacco, consola, preoccupa, qua e là per Parigi. Nove sono gli “appuntamenti” della giornata, durante i quali recita n’importe quoi, nove personaggi che non avranno mai un autore, dalla mendicante (che è l’unica che si ricordano tutti perché è la prima e non dura un ca**o) al padre di famiglia al killer al simulatore virtuale di dragoni che scopano senza condom ecc.
Cosa manca: il senso, quello frammentato, nei singoli quadri della collezione di personaggi, sia e generale – e qui volendo è un po’ più grave. L’attore protagonista, Denis Lavant, è un mostro, e non solo quando da mostro si traveste, di trasformismo e bravura. Alcuni dei suoi personaggi richiamano tradizioni miscellanee di letteratura e cinema, soprattutto francesi, e restano letteralmente negli occhi, come il disgusting Monsieur Merde, il sottomondo cortedeimiracolesco in cui si muove nelle fogne e condutture di Parigi, e il suo sberleffo matto all’ordine costituito.
Eppure anche Oscar, oltre a non dare mai spiegazioni, che vengono lasciate in toto a chi guarda (più che lasciate la loro mancanza è scagliata in faccia, del tipo “toh, arrangiati e bam!”, e con una certa forzatura) fa anch’egli parte di un sistema, e nonostante la frasetta contraddittoria della “bellezza del gesto”, con cui giustifica la sua vita, è perfettamente incasellato in una tabella, felice quanto il più medioman degli impiegati depressi, tout court, beve, ritrova e rimpiange una storia che non c’è stata, è supersolo nella folla dei tanti se stesso impersonati al giorno. E quindi?
C’è però una scena finale con le limos, perché se ne deduce che ce ne siano tanti, scarrozzati e metamofici come lui, le limos di notte nel parcheggio della Holy Motors, che non si sa cosa sia ma è una fabbrica di personaggi/storie, che tutt’a un tratto si mettono a parlare, e non dicono alcunché di geniale ma lo scarto tra loro e il mondo di Oscar per me è sì.
Lui invece muore pure tre volte, tra una balla e l’altra, ma tanto poi sta sempre benissimo. Non vale, fallo!, diventa un gesto fine a se stesso, se muore un personaggio a me spettatore spiace, se muore ma non muore no, diventa uguale, e non basta metacinematograficizzare (?) a manca e a destra, far vedere lui che si sveglia e squarcia una porta del sogno e si trova al cinema, occhieggiare al potenziale infinito di ripetizione dei sogni e credersi Borges e mettere tante immagini cool ed estetiche, eccetera, senza nemmeno far spogliare Eva Mendes, perché diventa anemozionale; diventa questo film.
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