Recensione su Gravity

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18 Ottobre 2013

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Gravity è un viaggio all’interno dell’io della Stone (pietra, materia, terra dunque), segnata da un lutto gravissimo e banale, senza senso, senza colpevoli, senza rabbia possibile verso qualcosa. Il nodo si scioglie durante l’incidente nello spazio.
Avvolgente la regia che con i piano sequenza rende tangibile quasi il galleggiamento, la mancanza di punti di riferimento, l’immersione nel nulla che è liquido amniotico già da subito, con gli astronauti legati sempre da queste corde/cordoni ombelicali che li ancorano allo Shuttle. Il disancoramento della Stone (fatto drammatico e violento, come la nascita) è una delle cose più belle del film, fluidissima la scena finisce con quella soggettiva ansiogena in cui c’è tutta la paura primordiale della solitudine, del vuoto, del buio, del silenzio oltre il proprio respiro. E come non pensare che a quel punto la Stone sia proprio la Terra, appesa ad un filo gravitazionale al sistema solare, nel nulla dell’universo, galleggiante sola, unica per quanto ne sappiamo in, appunto, una solitudine siderale e infinita.
Il percorso per salvarsi e tornare a casa, dove casa è proprio l’ambiente vitale del pianeta azzurro, passa attraverso la morte, la distruzione, il rapporto cameratesco con Kowalsky il guascone che è senza ombre e quindi specchio psicologico della Stone e sua chiave di volta, punto di riferimento più che esterno (Kowalsky le chiede insistentemente di dargli coordinate) interno, in verità lui chiede a lei di cercare coordinate dentro di sé. E la Stone dovrà recidere molti cordoni ombelicali e imparare a lasciare andare per guardare il qui ed ora e quindi per prevedere un dopo, dovrà rimanere sola (si nasce e si muore soli) e saperci convivere.
Carina l’idea del bullone che, ogni volta che le sfugge di mano, preannuncia l’arrivo dei detriti. Belle le scene fetali della Stone che si rigenera nella capsula; bella l’idea dell’allucinazione che, come i sogni in effetti, ricostruisce il sostrato delle nostre conoscenze, le riorganizza perché noi le si possa usare; ottimo il battito cardiaco che si sente all’interno della capsula.
A me poi è piaciuta la scodata darwiniana, precisa e asciutta, vera (la capsula porta sulla terra la vita, cade in acqua e poi da pesce ad anfibio, ad insetto la Stone striscia fuori sulla terra, infine pianta il piede per terra e si alza, Homo): in Cuaron il femminino è fecondità, generazione, progetto, sviluppo, futuro.
Ho odiato immensamente le musiche, hanno tolto gran parte del silenzio, il silenzio è lo spazio, il silenzio è metafisico in un film del genere; avrei preferito tempi più dilatati, il film è costruito come un thriller, lo capisco, ma i tempi più dilatati avrebbero reso maggiormente l’idea del panico, del nulla.
Gravity è un film fantapsicologico, è proprio umanissimo, la tecnologia è a puro servizio dell’uomo, inerte e senza anima, tutte le strumentazioni bovinamente obbediscono o meno a seconda del fatto che funzionino o meno; l’incidente è casuale e banale con ricadute gigantesche, come l’incidente della figlia della Stone, è ciò che capita senza intenzionalità, il senso alle cose è tutto, tutto umano (ed è la lezione di Kowalsky in fondo). Questo è un viaggio dentro all’uomo.

1 commento

  1. Stefania / 20 Ottobre 2013

    Ehi! Anch’io ho interpretato la sequenza finale come una messinscena della teoria evoluzionistica! (però, non l’ho apprezzata come te :p )

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