L’orrore è servito / 13 Giugno 2018 in Gran bollito

Film curiosissimo, di modi, volti e atmosfere molto particolari che, come recita nell’incipit, parla (in forma di metafora) di follia collettiva.
I primi, i modi, sconfinano nei pruriti di paese un po’ à la Piero Chiara e si afferrano saldamente a tradizioni ancestrali, a quei buchi neri culturali fatti di superstizione e ossessioni a cui nessuna comunità sembra mai capace di sottrarsi.

Sangue, religione, violenza, reprimende, turbe e turbamenti.
Nella libera rielaborazione dei fatti della saponificatrice di Correggio (e di altri eventi simili) diretta da Bolognini e sceneggiata da un nutrito gruppo di penne, fra cui Mario Monicelli, c’è un alito mortifero particolarmente pesante, qualcosa che non è solo vagamente gotico, ma che è pienamente horror, quasi come (azzardo) nei migliori film di Argento, con cui, a mio parere, condivide -con le debite differenze estetiche- l’uso attento delle architetture domestiche, intese puntualmente come antri stregoneschi.

Qui, la riuscita definizione del contesto è vivacemente grottesca ed è parte fondamentale del racconto. A lungo, certi dettagli mi hanno fatto pensare alla decadenza tipica dei nobili di viscontiana rappresentazione, salvo poi scoprire che la fotografia languida e in un certo modo malsana del film di Bolognini è stata curata proprio da Armando Nannuzzi, che, per l’appunto, si è occupato, fra le altre, di quelle di Ludwig e de La caduta degli dei.

I volti, dicevo. A partire dall’eccellente Shelley Winters, maternamente paffuta e terribilmente pazza e letale, le scelte di Bolognini sembra siano state rivolte a trovare interpreti con tratti somatici e caratteristiche fiscihe al limite del caricaturale, sicuramente eccessivi. E nel far ciò non stupisce la scelta di affidare a tre attori (Lionello, Pozzetto e nientemeno che Max Von Sydow) sia un ruolo femminile, en travesti (con Lionello indiscusso mattatore), che uno maschile, giocando ancora sulla confusione, sullo stravolgimento della prospettiva e della psiche, divertendosi quasi sordidamente.
Nell’affollato cast, imprevedibilmente sullo stesso set, ci sono perfino le due Pine fantozziane, Liù Bosisio e Milena Vukotic, l’una zitella cattiva (tutto il film è pieno di donne, perlopiù sole, sfiorite, insoddisfatte e spaventose), l’altra servetta muta e ingenua.

Gran bollito è un notevole film italiano di genere eppure trasversale, scabroso, traboccante di malizia da commedia sexy (e, paradossalmente, la Antonelli, attrice significativa dell’ormai lanciatissimo filone, non è il perno delle ossessioni di natura sessuale che alimenta la storia), a tratti trattenuta, a tratti sfacciata in maniera quasi puerile.

Nota conclusiva: la colonna sonora è firmata da Jannacci (c’è anche un brano che ricorda Via del campo https://bit.ly/2sUJPJA) e la canzone sui titoli di testa e di coda è cantata nientemeno che da Mina.

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