M / 27 Luglio 2020 in Gli indesiderati d'Europa

Fabrizio Ferrario ha evidentemente studiato per filo e per segno il cinema di Béla Tarr, ma per fortuna non tenta solo l’emulazione del maestro ungherese, cerca semmai di essergli fedele e al contempo di allontanarsene.
Da Tarr prende il bianco e nero spesso a tinte foschissime, le numerose inquadrature ostacolate che vanno a restringere il campo, i lunghi piani sequenza privi d’azione e di dialoghi, lo spostamento dei personaggi che così facendo pensano di trovare la salvezza (c’è anche una lunga inquadratura con i protagonisti ripresi da dietro mentre camminano stancamente verso l’ancora lontanissima meta che ricorda felicemente quella molto nota di Satantango, ma senza vento qui). Le storie narrate da Tarr, però, sono fuori da tempo e storia, è qui che il film di Ferrario se ne distacca, storicizzando quel tipo di cinema in maniera se si vuole estrema, non tanto perché rifiuta ogni vena soprannaturale di Tarr, bensì perché mette al centro due eventi capitali del Novecento (il Franchismo e la repubblica di Vichy) e dà il ruolo di protagonista a un filosofo fondamentale come Benjamin, che proprio parlando del tempo ci avverte che l’idea di storia come progresso e miglioramento costante è ridicola: si preparava così, riflettendo accigliato, all’ecatombe che di lì a poco sarebbe caduta sull’Europa.
Oltre a essere esteticamente molto prezioso (bellissima, per esempio, la scena con i due lavoratori dei campi e il cigolio delle loro apparecchiature accompagnato da un quartetto d’archi di John Cage), il film ha il coraggio di sperimentare, ma è probabilmente questo anche il suo limite principale: sembra un laboratorio dove provare sempre qualcosa di nuovo più di quanto sembri un film compiuto. Ma probabilmente una visione la merita lo stesso.

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