Recensione su Giù la testa

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Giù il cappello! / 2 Maggio 2016 in Giù la testa

Se si toglie l’esordio de Il colosso di Rodi, Giù la testa è indubbiamente il film meno celebre e che riscosse meno successo tra i capolavori che Sergio Leone sfornò nella sua attività di regista.
In questa occasione, Leone propone un soggetto intriso di storia, che inizialmente non voleva dirigere personalmente, salvo poi cedere all’insistenza delle due star ingaggiate per i ruoli da protagonista, i quali non erano disposti ad accettare altri dietro la macchina da presa.
Nel trattare il tema, in generale, della rivoluzione, si accenna, in apertura, a quella cinese, citando alcune parole di Mao (che tanto saranno piaciute a Godard), per poi dedicarsi all’intricata rivoluzione messicana degli anni Dieci, raccontata nella sua seconda fase, quella successiva alla caduta di Madero.
Ma nel film si accenna anche alla ribellione irlandese contro l’Inghilterra, con l’espediente del personaggio di Sean Mallory che arriva proprio da quelle parti, dove è ricercato per terrorismo.
In alcuni flashback, accomunati dalla proposizione mediante ralenti, si assiste al passato di Sean, ai suoi sogni e ai suoi amori, fino all’episodio del tradimento da parte di colui da cui meno se lo sarebbe aspettato.
Questi flashback sono caratterizzati dal filo conduttore della splendida colonna sonora di Ennio Morricone, che ancora una volta forma un connubio eccezionale con il regista romano, e che forse in questa occasione riesce addirittura a superarlo, essendo il celebre brano composto per l’occasione probabilmente più famoso del film stesso.
Per il resto, il solito stile registico di un Leone ispiratissimo soprattutto nella prima sequenza, dove non risparmia i primi piani che sfociano nel dettaglio (occhi, bocca) che lo hanno reso celebre.
È un film che non manca di qualche difetto, soprattutto nella sua connotazione epica non sempre convincente. Così come non convince in pieno l’interpretazione di un comunque discreto Rod Steiger, fresco dell’Oscar come miglior attore per l’interpretazione di Bill Gillespie in La calda notte dell’ispettore Tibbs.
Non è un difetto la durata, che inizia ad essere di quelle importanti, ma tutto sommato non pesa.
Il titolo originale italiano (ispirato dalla frase che Sean dice a Juan ogniqualvolta si sta cimentando con la dinamite) non è forse dei più azzeccati, così come non lo sono le versioni per il mercato americano (Duck, you Sucker) e britannico (A Fistful of Dynamite, che ricalca il primo film della trilogia del dollaro). Decisamente più riuscito il titolo francese che rispecchia quello informale con cui la pellicola è altresì conosciuta e che la cala perfettamente all’interno della seconda trilogia leoniana, quella del tempo: C’era una volta la rivoluzione.
È un film, in conclusione, che risente del fermento politico sociale post-sessantottino e che non può non ricordare Il mucchio selvaggio di Peckinpah, il quale, dopo essersi ispirato (anche) al regista italiano per rivoluzionare il western a stelle e strisce, fu qui probabilmente ricambiato (si narra che Leone offrì il film proprio a lui, tuttavia – e qui le motivazioni non sono chiare – non se ne fece nulla).

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