Neorealismo a colori / 22 Luglio 2016 in Giorni d'amore

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

I toni da commedia popolare allontanano solo apparentemente il De Santis dal solco del neorealismo che lo stesso cineasta ha contributo a definire con i suoi lavori da sceneggiatore e da regista: suo primo lungometraggio a colori, Giorni d’amore sviscera la vita che si svolge all’interno di una comunità della Ciociaria che, proiezioni cinematografiche e (scalcagnati) mezzi a motore a parte, sembra congelata in un’epoca arcaica caratterizzata in maniera imperitura da attività agropastorali (e ittiche) che soggiogano gli abitanti del luogo alla legge del soldo, che -ça va sans dire- non basta mai.

La coppia di giovani protagonisti, interpretata da Mastroianni (Nastro d’Argento ’55) e da un’appena quindicenne eppure incantevole e capace Marina Vlady, da tempo desidera convolare a nozze, ma, nonostante i sacrifici e le continue economie, le spese per la cerimonia e i relativi preparativi non possono essere sostenute dai loro miseri portafogli.
Pur mostrate con la leggerezza che si confa ad un racconto profondamente ancorato alla tradizione e agli usi locali, le attività manuali svolte dai promessi sposi e dalle loro famiglie trasudano fatica fisica puntualmente mal ripagata: alcune delle sequenze migliori, concentrate nella prima metà della pellicola, sono quelle in cui Pasquale, Angelina e i loro parenti stretti ragionano sui denari necessari a sostenere questa o quella spesa per il matrimonio, mentre sono impegnati nelle più svariate attività, dalla raccolta delle angurie alla pulitura del grano.

Però, la rappresentazione che De Santis fa di questo “piccolo mondo antico”, pur resa graziosa dalla bella presenza dei protagonisti, dai volti dei caratteristi e dalla consulenza di un pittore per lo studio dei costumi, delle scenografie e della fotografia (che, a tratti, non a caso, ricorda vagamente certi artisti italiani dell’800 come Fattori), non è esclusivamente ironica o bucolica.
Con apparente nonchalance, per esempio, il film insiste sulla limitatezza degli orizzonti della protagonista femminile definita dalla povertà e dall’ignoranza. Angelina è dolce, umile, avvezza al lavoro e alla fatica, ma è analfabeta e geneticamente rassegnata al ruolo di subordinata all’interno del nucleo famigliare (sia quello in cui è cresciuta che in quello che, prima o poi, costituirà con il fidanzato), arresa ad una visione del mondo maschiocentrica, certa che la sua più grande felicità possa essere legata ad un matrimonio in pompa magna, “con i fiori d’arancio”.
In questo senso, è emblematica la scena in cui Pasquale minaccia di “andare con altre donne”: lei risponde che non se ne stupirebbe, dato che lui “ha fatto il militare” e che gli uomini, così, possono togliersi tutte le voglie, anche se fidanzati. Angelina accetta per convenzione l’infedeltà del ragazzo e non concepisce per sé stessa il fatto di “levarsi le voglie” non per il solo senso di fedeltà nei confronti dell’amato, ma perché ritiene che si tratti di una “legge di natura”.

Nonostante tutto, De Santis tifa apertamente per lei e affida alla Vlady una conturbante scena finale di allegra seduzione sulla spiaggia che sembra nascere d’istinto da una giovane donna incatenata ad un mondo fondato sulle convenzioni: il corpo e il volto dell’attrice, così freschi e torniti, si immergono nei flutti marini con audaci sospiri, Angelina diventa Circe e sirena, seducendo definitivamente Pasquale e la platea.
Non è difficile immaginare che parti, fatica e privazioni comprometteranno presto il suo aspetto, rendendola simile alle donne di età indefinita e precocemente sformate che la circondano, otri piene di stanchezza e spesso di livore, ma, per un attimo, la ragazza è stata davvero tale.

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