Recensione su Ghost in the Shell 2 - L'attacco dei cyborg

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Dieci anni dopo, tre anni dopo / 23 Novembre 2013 in Ghost in the Shell 2 - L'attacco dei cyborg

Dopo circa dieci anni dal precedente capitolo, Mamoru Oshii torna al timone di regia e porta alla luce il seguito del pluriapprezzato Ghost In The Shell.
La prima impressione che si potrebbe avere prima della visione di questo film è quella di un timido ma giustificabile scetticismo, dato da due motivi particolari: il primo, tipico di tutti i sequel cinematografici di successo, è legato all’effettiva necessità di mostrare al pubblico un secondo capitolo della saga, rischiando magari di andare a sminuire la bellezza della prima pellicola e il fascino lasciato da quel finale aperto, un po’ vago ma comunque soddisfacente, dove il maggiore Motoko Kusanagi, ormai diventata un nuovo essere, si eclissa nei confronti del pubblico con la conclusiva e teatrale frase “E ora dove andrà questo nuovo essere? La rete è vasta ed infinita.”
Il secondo motivo è dato proprio dalla perdita in questo film dello stesso maggiore Kusanagi come figura principale delle vicende raccontate, cosa che a me personalmente ha un po’ deluso visto che ho considerato la mentalità complessa e il delicato dualismo uomo-macchina dell’ex membro della sezione 9 della Polizia di New Port City, la componente più interessante e coinvolgente dell’intera storia.
Tuttavia, Oshii fornisce una storia, seppur cronologicamente successiva al primo film, scollegata e a sé stante, che sembra non sentire per nulla della pressione data dalle aspettative e dal successo del primo film. La storia infatti si svolge tre anni dopo rispetto alla vicenda del Signore dei Pupazzi e tratta un caso completamente nuovo. Gli unici collegamenti con la prima pellicola sono l’ambientazione, la figura del maggiore Kusanagi che seppur non fisicamente presente, gira costantemente intorno al personaggio di Batou, altro collegamento al primo film, che qui ha il ruolo di protagonista ed è accompagnato da Togusa, un’ulteriore vecchia conoscenza per gli spettatori.
Non cambiano nemmeno le tematiche trattate, ovvero il ribaltamento dei concetti di umano e di macchina, la ricerca della definizione di identità e le continue strizzate d’occhio alle leggi della robotica di Asimov e a molte altre nozioni umanistiche.
A differenziarsi dal primo film sono la migliore (e di molto) veste grafica, con un utilizzo della CG curato e che sicuramente rende esteticamente più appetibile il film. Stesso discorso per la regia. Mentre le musiche, sempre avvolte da uno stile piuttosto onirico, si confermano ancora una volta adatte. Batou e Togusa si rivelano alla fine due protagonisti degni, seppur meno complessi e studiati rispetto al maggiore Kusanagi. La sceneggiatura del film fa centro come nel capitolo precedente, e fornisce una storia nuova, intrigante e riflessiva, accompagnata (come nel precedente capitolo) da una buona dose d’azione.
Sicuramente da vedere per chi ha già apprezzato la pellicola del 1995.

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