Qualcosa di più? / 11 Aprile 2018 in Il prigioniero coreano

Kim Ki-duk torna sulla tematica della cortina di ferro che divide il Nord dalla Corea del Sud, affrontata già nel 2002 in “Coast Guard”. L’approccio è però differente e ai lunghi silenzi di azione poetica, l’autore sceglie di affidare l’esplicazione dell’intera narrazione a numerosi dialoghi. Il nuovo indirizzo intrapreso pone “Il prigioniero coreano” a inserirsi perfettamente all’interno del ricco panorama cinematografico connazionale, senza spiccare per l’originalità. La firma artistica manca perché di quello spiritualismo magico ottenuto dal muto contemplare della realtà al fine di comprenderne una via d’uscita non c’è niente, ucciso dalla concretezza di un continuo dialogo ad accompagnare l’azione. Ebbene sì, le immagini non parlano da sé. C’è come il timore, da parte di Kim Ki-duk, che il messaggio politico non arrivi. Questa paura dimostra la fragilità della sceneggiatura tecnica e della basica regia. La trasparenza del messaggio toglie il mistero e quella ambivalenza che contraddistingue il regista, tra brutale realtà ed elevazione spirituale. “Il prigioniero coreano” da solo una soluzione di lettura allo spettatore, nessuna possibilità di rifuggirla. Per chi ha una basica conoscenza cinematografica il film può risultare soddisfacente e divenire spunto di riflessione ma non può soddisfare chi mastica cinema sud coreano, gli estimatori di quello di denuncia politica del Vicino Oriente o per i conoscitori delle nostre pellicole politiche. Da una parte bisogna premiare il regista perché scegli di far vedere entrambe le facce delle due coree, con i loro sogni, ideali e soprusi, senza farsi soggiogare dal democratico capitalismo da vetrina, dall’altra parte si è insoddisfatti dalla mancata presa di posizione. Kim Ki-duk agli esordi era autore controverso che non temeva i fischi ai grandi festival, anche per il suo casuale approdo al cinema e la sua spontaneità nell’affermare un certo disinteresse verso la storia di quest’arte, oggi invece appare maggiormente inserito e in questo processo di omologazione pare aver perso un po’ di originalità.

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