ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Non so se, qui da noi, Get Out avrà lo stesso trascinante successo che ha riscosso negli Stati Uniti, dove il film di Peele è stato apprezzato a destra e a manca soprattutto per via del suo originale humour grottesco che, in maniera decisamente atipica, affronta il problema del razzismo (e dell’antirazzismo, se vogliamo) nella società liberal americana contemporanea: in questo senso, sicuramente, si tratta di un horror anticonvenzionale nella contestualizzazione, non certo nello sviluppo narrativo, versante sul quale, non troppo lontanamente, mi ha ricordato certi film a tema hoodoo come The Skeleton Key e Jessabelle.
Le sue caratteristiche fondanti e i suoi punti di forza di natura socioantropologica, però, contengono delle sfumature tanto precipue da renderlo un prodotto “geolocalizzato”, apprezzabile in toto solo da chi -ovviamente dotato della giusta sensibilità- vive direttamente le dinamiche e le contraddizioni di quella specifica situazione o, pur non appartenendo apertamente a quel contesto, lo conosce approfonditamente per motivi di lavoro e/o di studio, per esempio.
Questo per dire che la pellicola è sì intrigante (un horror sociopolitico: ci sta), ma, vista la sua “esclusività” -a parer mio- non è, come dire, pienamente fruibile al di fuori dei confini statunitensi.
Tra i suoi pregi “neutri” (ma, parliamoci, niente di trascendentale), annovero la divertita critica all’uso sconsiderato delle notizie apprese “senza filtro” attraverso i mass media (“L’ho visto in tv, quindi è vero!”. E meno male che non viene detto: “L’ho letto su Facebook!”) e la rappresentazione della congrega wasp, composta pressoché esclusivamente da vecchi con un piede nella fossa che, se proprio devono riconoscere un pregio agli afroamericani, rendono loro merito della propria conformazione fisica e del proprio patrimonio genetico per puro interesse personale.
Ottima la resa tecnica, con una regia e una fotografia pulitissime e una colonna sonora molto interessante.
Bravi anche gli attori: se Daniel Kaluuya fa sufficientemente bene il suo dovere per mettere in scena lo smarrimento incredulo del protagonista alle prese con una situazione spinosa e LilRel Howery è perfetto nel ruolo dell’amicone complottista, a tratti gli Armitage riescono a mettere i brividi. Catherine Keener, Bradley Whitford e, soprattutto, l’inquieto Caleb Landry Jones riescono a suscitare un certo disagio. Purtroppo, intravisto il complotto, il plot twist legato all’irritante (a ragione) personaggio di Allison Williams è davvero telefonatissimo.
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