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Favolacce

/ 20206.7154 voti

I Fratelli Coen ma più coatti / 17 Maggio 2020 in Favolacce

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Voto: 7,5

Commento a freddo senza una particolare logica:
ho notato dei piccoli problemi di sonoro, nella parte sull’autobus e nel dialogo tra Elio Germano e – come lo chiamo io, (anche perché non ricordo il nome) – “Belli Capelli”, sono tornato indietro più volte per ascoltare bene perché gli attori parlavano a denti serratissimi e non ho capito se era voluto questo discorso della difficoltà di comprensione di alcune sequenze, come non ho ben capito se era voluto l’essere eccessivamente sopra le righe di qualche attore(la coatta bionda in primis). Io, fortunatamente, sono di Roma e ho compreso quasi tutto ma ho sentito che persone di altre regioni si sono lamentate dell’eccessivo uso del romanesco, che ormai – sempre a detta loro – sembra sia diventata una moda(cazz**e enorme per me). Non so perché, il discorso della bomba, in un momento ben preciso mi ha fatto venire in mente un passo de La Coscienza di Zeno, e mi è sembrato che, come concetto generale, si avvicinasse anche alle parole di Svevo.
Comunque c’è da dire che c’è stata un’evoluzione tecnica dei D’Innocenzo enorme. La Terra dell’Abbastanza è un ottimo film (e l’ho preferito a quest’ultimo) ma è anche un film “sporco” per certi aspetti. Un po’ come il passaggio dai primi Pusher di Refn a Valhalla Rising o Drive. Voglio dire, sembrano passati molto più di due anni tra LTDA e Favolacce e i D’Innocenzo hanno dimostrato di saper costruire la tensione egregiamente, di saper dirigere attori più o meno conosciuti, di giocare molto con i toni della fotografia, a seconda della situazione e per non parlare dell’eccellente sottobosco sociale, la critica, seppur estremizzata, è spietata e la sceneggiatura è sempre calibrata al punto giusto. I D’Innocenzo si confermano come future promesse del cinema italiano e, magari un giorno, mondiale.

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Camminare sulle uova / 15 Maggio 2020 in Favolacce

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Sette stelline e mezza)

Favolacce è una suggestiva sincrasi, non solo a livello linguistico, tra favola (nerissima) e parolacce.
Premiato in Berlinale 2020 per la miglior sceneggiatura, il nuovo film di Fabio e Damiano D’Innocenzo si basa su un antico artificio letterario: il ritrovamento di un manoscritto. Cervantes, Walter Scott, il Manzoni, Umberto Eco hanno usato questo escamotage nelle loro opere più famose.
La voce narrante del film (Max Tortora) dice di aver trovato il diario di una bambina nella spazzatura e, poiché il manoscritto si interrompe improvvisamente, lo ha completato finché ha avuto spazio libero sulla carta. Il narratore (alter ego dei D’Innocenzo) avverte il pubblico che, ascoltando questa storia, si potrebbe restare insoddisfatti, che il racconto potrebbe essere imperfetto: “Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata.
Si scherniscono, i D’Innocenzo. Ci prendono in giro, i gemelli di Tor Bella Monaca.

Perché, invece, il loro secondo film è molto ispirato, lo dico in senso letterale. È una sofisticata bomba a orologeria (il riferimento non è affatto casuale) che attinge a piene mani da un ampio bagaglio letterario, cinematografico e di esperienze personali, in cui ogni dettaglio tecnico, narrativo e formale è accuratamente calibrato per turbare profondamente lo spettatore.
Esagero, ne sono più che consapevole, ma, a freddo, confesso che sono portata ad azzardare che perfino il cattivo audio di alcuni passaggi del film sia calcolato. Il fastidio generato dal fatto di non distinguere per bene o del tutto certe battute ha influito sul mio stato d’animo, mettendomi in costante allerta, coi nervi tesi. “Se perdo anche il prossimo dialogo, sono fregata: non ci capirò più niente”, mi dicevo. Camminavo sulle uova, come i bambini del film.

I D’Innocenzo sono cresciuti divertendosi a riscrivere da cima a fondo le sceneggiature di film famosi: sanno bene come smembrare un organismo cinematografico e ricomporlo dandogli un aspetto diverso e un po’ freak.  
Dopo accurata masticazione e digestione di vasta materia, quindi, Favolacce evacua.
Favolacce è una storia di sangue e feci conservata in un contenitore asettico: con le sue villette anonime (dentro e fuori) e il vicinato in ordine, puzza dell’ipocrisia dei suoi personaggi bugiardi, trasuda malanimo, ira trattenuta a stento, piccinerie e depravazione. 
Infine, profuma di un tombale afrore biblico: “vi fu un grande lamento in Egitto, perché non c’era casa dove non vi fosse un morto” (Esodo 12,29-30). La morte dei primogeniti, speranza in nuce per un mondo potenzialmente diverso in cui, però, germina la gramigna (l’ossessione per le apparenze, il sesso come atto di autoaffermazione, la sottile prepotenza), è la piaga che colpisce una generazione di genitori egoisti, distratti, incapaci di esprimere affetto incondizionato e laidi, porci travestiti da uomini.

In maniera analoga a La terra dell’abbastanza, che era come eppure diverso da i film di Caligari e Garrone (con cui i D’Innocenzo hanno lavorato a Dogman), Favolacce ricorda tantissime cose, ma non è nessuna di esse e, qui, ha la sua forza.
Per me, per esempio, è il Lanthimos di Kynodonthas che incontra l’Haneke di Funny Games e Il nastro bianco, l’Alexandros Avranas di Miss Violence, I figli del grano e Il corpo di Stephen King, Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides e Sofia Coppola, il Serrador di Ma come si può uccidere un bambino? e Il villaggio dei dannati di John Wyndham/Wolf Rolla/John Carpenter. Ma, qui, i paralleli sono un po’ fini a se stessi, perché è il risultato, molto perturbante e, a suo modo, raffinato, che conta.
Il film è pervaso da un’atmosfera sospesa (come la stagione estiva in cui è ambientato) che alimenta l’incapacità dello spettatore di definire con certezza cosa sia vero e falso in una storia di finzione che ricorda la realtà.

Validissima operazione di casting, con una grande attenzione alla fisicità, ai volti degli attori, e molto bravi tutti gli interpreti, dai bambini agli adulti, su cui spicca, per notorietà e negatività del personaggio, Elio Germano.

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Tratto da una storia falsa ma molto ispirata / 12 Maggio 2020 in Favolacce

Che strano oggetto che è questo film!
Un film che trova, tra le altre cose, nella propria irrisolutezza uno dei suoi più grandi pregi. Più che un difetto, l’irrisolutezza viene a essere qualcosa che gli dona fascino e sensualità; lo rende inafferrabile, porta cioè all’estremo la sensazione di vuoto derivante dall’idea di non aver compreso appieno cosa sia successo: come se razionalmente non avessi capito niente, ma inconsciamente avessi non solo capito ma anche vissuto in prima persona le cose che che hai visto scorrere sullo schermo.
Unendo quei film greci molto duri – à la Lanthimos, per intenderci, ma epurati dall’asetticità che li contraddistingue – a film come “Ma come si può uccidere un bambino?” e “Stand by me” – film cioè in cui l’estate assurge a ruolo di personaggio principale – ne è uscito fuori qualcosa dalla grande personalità e che supera i propri modelli trovando una propria dimensione.
Insomma, la sensazione è che veramente abbiamo trovato due nuovi autori veramente importanti.

Finirei con una nota di “colore”. La visione del film su Chili mi è stata regalata dagli stessi D’Innocenzo, in pratica, in quanto partecipavano a una live su YouTube organizzata da BT, un noto sito di cinema, e veniva data, a colui che scrivesse la domanda a loro dire più divertente, l’opportunità di ricevere il codice promozionale per la visione gratuita. In particolare a Fabio D’Innocenzo è piaciuta proprio la mia (stupidina, ma era una strategia e si è rivelata vincente), quindi, idealmente, lo ringrazio anche qui.

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