Gli emarginati di Audiard / 17 Aprile 2020 in Dheepan - Una nuova vita

Se c’è un filo conduttore in molte delle pellicole di Audiard è quello di scegliere, come personaggi centrali della loro storia, individui problematici, sia socialmente che fisicamente: ci sono Paul e Carla di Sulle mie Labbra, lui ex detenuto in libertà vigilata e lei insoddisfatta impiegata con un handicap uditivo; c’è Malik de Il Profeta, un ragazzino analfabeta totalmente abbandonato a se stesso che passa da un orfanotrofio all’altro e, infine, finisce in carcere; ci sono Stephanie e Ali di De Rouille et D’Os, lei una addestratrice di orche che perde le gambe, lui un troglodita disadattato con un figlio a carico e senza un lavoro fisso.

Dopo questo breve excursus sulla filmografia di Audiard possiamo passare al penultimo lavoro del regista, ovvero questo Dheepan, che come tematiche non si discosta tanto dalle altre pellicole appena citate ma ha una piccola differenza: il film è come se fosse praticamente muto.
Mi spiego meglio, la sceneggiatura è presente, e non poco, ma gli attori, che interpretano una famiglia che emigra dallo Sri Lanka ai bassifondi di Parigi, recitano totalmente in cingalese senza nessun sottotitolo in italiano e, a parte qualche frase biascicata comprensibilmente, l’interpretazione sta tutta in mano allo spettatore che deve carpire il significato dei dialoghi in base alle emozioni, ai corpi e alle espressioni dei protagonisti.
E questa credo sia una scelta importantissima per poter comprendere al meglio il disagio culturale che prova un/una qualunque uomo/donna costretto/a ad emigrare.
Il paradosso è che nonostante il 90% della sceneggiatura sia effettivamente incomprensibile, il succo dei dialoghi è chiarissimo e fa capire come tante volte, nel cinema, le parole sono superflue, anzi, non servono affatto.

Quello che adoro di Audiard è che è un maestro – per me – della regia invisibile. Non è un regista che cerca chissà che virtuosismi – il che non è ne un bene ne un male – come potrebbe fare un Nolan o un Inarritu, tuttavia riesce ad adattarsi sempre adeguatamente alla narrazione e fa dimenticare lo spettatore che sta guardando un film.
Audiard sa esattamente come stringere sui volti o sui corpi e lo fa nei momenti giusti e riesce con la stessa eleganza a creare colpi di scena e girare delle piccole sequenze action degne di nota.
Dirige ottimamente questi attori-non attori che si comportano come professionisti e riesce a descriverli lentamente solo con la macchina da presa senza una sceneggiatura – comprensibile – a dargli sostegno.

Il personaggio di Dheepan è scritto incredibilmente e viene svelato piano piano, come un libro. Sappiamo subito del suo passato come soldato, tuttavia viene visto dagli spacciatori del blocco solo come un portiere indiano, innocuo, un po’ strano e che non capisce niente.
Furbamente Audiard non svela subito le carte e fa entrare lo spettatore nell’ottica dei francesi ovvero: Dheepan è un freak, un “indiano” del ca**o come tutti gli altri, che svolge un lavoro del ca**o come tutti gli altri. Un po’ l’ottica dell’occidentale medio che guarda con disprezzo gli orientali, ritenendosene più furbo.
Ma Deephan è un ex soldato e tutta la sua violenza trattenuta, frutto di un disturbo post traumatico, viene messa in scena gradualmente, con i giusti tempi, facendo capire che l’uomo in questione non è solo un “portiere indiano del ca**o” ma più un Kowalski alla Gran Torino. Uno che se si incontra in giro è meglio non fare incazzare.

Dheepan va digerito con qualche giorno. Personalmente giunto ai titoli di coda ero un po stranito e non sapevo bene come inquadrarlo però ora è tutti più chiaro, ne ho percepito la profondità e ho capito perché Audiard ha girato questa pellicola in questo preciso momento storico. Ha trattato con la giusta attenzione diversi temi senza metterne in ombra nessuno. Una lodevole rappresentazione cinematografica dello shock culturale.

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