Recensione su È stata la mano di Dio

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Dolore, arte e perseveranza / 17 Dicembre 2021 in È stata la mano di Dio

Attraverso il dolore si può raccontare il mondo. E’ l’inchiostro ideale quando apparentemente non si ha nulla da dire.
Sorrentino, con la sua opera più profonda, sembra suggerirci questo. E come sempre lascia che la poesia scorra libera, anche nella sua più grottesca forma, perché in fondo la bellezza è solo un modo più ingenuo e trasognato di vedere le cose.
L’eterea Napoli degli anni ‘80, con uno dei suoi interpreti più iconici ( e storici ) , che ho vissuto solo inconsciamente, perché ero troppo piccolo per percepirne l’essenza, così smaliziata, eppure oltremodo sincera, pregna di contraddizioni, ma allo stesso tempo mai satura di speranza; è la cornice ideale per quello che è a conti fatti un monologo interiore del regista, solo che al silenzio si alternano parole, caricature, costrutti e immagini, che hanno principalmente il compito di sottendere la realtà, perché triste, perché noiosa, o semplicemente poco artistica.
Sorrentino realizza quasi due film. Il primo, in cui la commedia si mescola al faceto, che rappresenta un po’ la quiete fanciullesca del regista. Non quella che si respira dopo una tempesta, ma quella che presagisce l’arrivo prepotente di un desiderio, anche se per riconoscerlo devi patire l’affanno, il patimento, il dolore. Dolore che nella seconda parte naufraga in una onirica ricerca di un’identità artistica.
Dopotutto dolore e arte hanno quasi la stessa forma mentis.

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