Incubo lucido / 2 Settembre 2017 in Dunkirk
(Sette stelline e mezza)
Nolan si dedica per la prima volta a un film bellico e lo fa sfruttando una vicenda realmente accaduta, mettendo in scena sia risvolti noti che dettagli di fiction, per mostrare molte delle numerose variabili psicologiche che entrano in gioco in una situazione tanto estrema da ricondurre l’uomo a pura espressione dell’istinto primitivo e animalesco per eccellenza: la sopravvivenza.
Nella pancia della barca che non si decide a muoversi nonostante l’innalzamento della marea, minacciando di condannare a una fine orrenda un gruppo di ragazzi, un anonimo e terrorizzato soldato inglese riassume bene il concetto: “È paura, è avidità. Quella che ti spinge le budella è me**a”.
Fin dai primi istanti del film, immerso in un contesto pervasivo e avvolgente dominato da un sonoro impeccabile volto a esaltare i terribili e iperrealistici rumori d’ambiente (onde, mitragliatrici e bombe, su tutti, a ricordare i tre elementi in cui si svolge l’azione: acqua, terra e aria) e da una colonna sonora che si fa rumore e metafora (badate al ticchettio insistente dell’orologio inserito da Zimmer), lo spettatore assiste a una folle corsa alla vita, contro il tempo, costi quel che costi.
La domanda principale posta da Nolan è: cosa saresti disposto a fare, pur di non morire? E gran parte del film regge benissimo aggrappata a questo assunto. Nei soldati si risvegliano furbizie da topo braccato dal gatto, malizie da coniglio in fuga dalla volpe, che fungono meglio di qualsiasi tattica militare programmata.
Il nemico è presente, ma pressoché invisibile: da dove attaccherà? Come? Quando? Con quanti uomini, quali armi? La tensione è, letteralmente, distruttiva, perché scava dall’interno, dalla psiche di personaggi (quasi) anonimi che si fanno maschera collettiva.
Le sequenze, quasi mute, che mostrano l’in-credibile resistenza dei soldati, privati del sonno, del cibo e dell’acqua, della possibilità di espletare normali funzioni fisiologiche e posseduti dal terrore, ambientate su spiagge silenti, chilometriche, lambite da gasolio e schiume sintetiche, coperte da cieli immobili e lividi, mi hanno impressionato quanto quelle di azione propriamente detta, perché mostrano la difficoltà di uscire da un incubo a occhi aperti.
Poi, Nolan inizia a raccontare sempre più diffusamente di gesti di grande o minuto (se non inesistente) eroismo, scadendo in una certa forma di stereotipia che, sinceramente, non mi aspettavo. Al di là della precisa e misurata caratterizzazione del personaggio di Mr. Dawson (bravo Mark Rylance a rendere efficacemente l’equilibrio di un uomo “normale” in una situazione tragica), che in funzione di tale retorica sembra essere stato creato, c’è il soldato interpretato (bene) da Harry Styles che, dal canto suo, sembra essere stato messo a bella posta nel film per fare e dire le cose più sbagliate, per essere rimbrottato lucidamente dall’apparentemente impassibile e pragmatico Fionn Whitehead.
Insomma, se, da una parte, Dunkirk è un film impressionante per la potentissima rappresentazione del dramma e del trauma del conflitto, messa in scena con un apparato tecnico di evidente e, oso dire, imbarazzante eccellenza, dall’altra -a parer mio- si attesta nella media dei racconti di genere secondo cui sembra necessario esprimersi in maniera didascalica per “spiegare” l’evento e le sue risoluzioni (mi riferisco, per esempio, alla sequenza finale sul treno, ai sensi di colpa del personaggio di Styles -ancora lui- e al fatto che “non si vincono le guerre con le evacuazioni”).
Insomma, Dunkirk mi è parso una splendida gioia cinefila a livello tecnico, ma, a fronte delle sue comunque riuscite metafore (su tutte, quella della marea che, come un respiro “terrestre”, alternativamente, blocca e invita alla fuga i soldati sulla spiaggia) non mi ha convinta del tutto su quello narrativo (e non nego possa trattarsi di un mio limite e me ne dolgo).
Domanda, qualcuno mi aiuti: dopo essere salito a bordo della barca di Mr. Dawson, Cillian Muprhy dice qualcosa come: “È stata colpa di…”, pronunciando -credo- un nome. Cosa è successo alla scialuppa (o quel che è) su cui si trovavano lui e gli altri soldati che non hanno accolto a bordo Styles e Whitehead? Cosa ci faceva su un relitto (un aereo?) in mezzo al mare? Nolan ha volutamente omesso un dettaglio esplicito, nascondendone la “soluzione” nelle pieghe dei salti temporali che ha ordito (una settimana, un giorno, un’ora), o, semplicemente, mi sono persa qualcosa?
dice “è stato un u-boot”: in risposta a Mr. Dawson che assumeva fossero gli aeri, i responsabili.
Cmq ci ho pensato anche io, eppure non penso ci sia sfuggito qualcosa; molto probabilmente è stato omesso e basta, anche se non mi sembra da lui accennare a degli eventi senza poi farne l’esaustiva narrazione. …boh
@Simo_Kun: oh, grazie! 🙂