15 Settembre 2013 in Il padrone di casa

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

7° film di Dreyer e tratto da una piéce teatrale, Il padrone di casa (aka L’angelo del focolare) è uno degli esempi più rappresentativi dello stile di Dreyer: partendo da una documentazione enorme, egli elimina tutto ciò che non è indispensabile, conservando solo ciò che è assolutamente necessario, una sorta di purificazione del testo. E’ grazie a questa trasformazione che è possibile osservare fluidamente e con continuità la storia di una banale famiglia danese senza che lo spettatore venga distratto da particolari ininfluenti. Questa forte continuità viene resa anche dal fatto che lo spettatore non abbandona praticamente mai il piccolo appartamento (da notare anche il solo uso di piani statici ravvicinati e delle mascherine), e se lo fa è solo per altri luoghi chiusi come il cortile, la soffitta e la cantina. Anche le scene girate in esterna non presentano nessuna apertura al cielo e dall’unica finestra dell’appartamento non traspare un raggio di luce. L’attenzione dello spettatore, grazie all’opera certosina di Dreyer, è interamente focalizzata sulle vicende della famiglia.
Il film può essere suddiviso in tre parti: la descrizione della famiglia Frandsen e di come essa venga comandata a bacchetta dal capofamiglia Viktor e la partenza della moglie Ida per il forte stress, i mutamenti che si verificano grazie alla vecchia Mads ed infine la “redenzione” di Viktor ed il ritorno di Ida all’ovile.
Già la prima scena fa capire le condizioni in cui versa la famiglia: è l’alba, stanza vuota, Ida si sveglia per prima per affaccendarsi nei lavori domestici nel massimo silenzio, (guai a svegliare il marito!) mentre l’orologio sulla parete ticchetta inesorabilmente il passare del tempo. Quindi viene prima la figlia maggiore, poi il minore ed infine Viktor, che nel frattempo ha avuto tutto il tempo di stiracchiarsi nel letto. Il tutto viene inquadrato con un ordine perfetto, ogni cosa è al suo posto, come a sottolineare l’apparente perfezione dal punto di vista di Viktor, che sfrutta la totale passività della moglie per fare il bello e cattivo tempo. A rompere gli schemi ci penserà la vecchia Mads (una bravissima Mathilde Nielsen) che dopo la partenza di Ida penserà a dare una lezione a Viktor, a partire dall’appendere un lungo filo per il bucato nella stanza (operazione che viene ripresa tramite un lungo movimento di camera, tra i pochissimi presenti nel film). Proprio il filo rappresenterà il primo passo verso la redenzione: la prima volta infatti Viktor, alla sua vista, lancia rabbiosamente via i vestiti appesi, la seconda volta si china leggermente per sorpassarlo ed infine la terza volta si china completamente per passare sotto i panni stesi come un agnellino mansueto. Nell’ultima parte, dominata da alcune deliziose scenette comiche tra Viktor e la nutrice, quest’ultima raddrizza definitivamente l’uomo mettendolo all’angolo “in castigo”. Il film si conclude col ritorno di Ida e la famiglia finalmente felice. Come in La vedova del pastore però, questa felicità è pesantemente ironica. nell’ultima scena infatti vediamo Ida ricaricare l’orologio inattivo dalla sua partenza, col pendolo a forma di cuore oscillare tra lei e Viktor (che di professione è orologiaio) come a simboleggiare il ricongiungimento dei due innamorati: “And the wise old clock seemed to thick ‘Mary’s back – It’s all right – Mary’s back – It’s all right – …” recita la didascalia. E vissero tutti felici e contenti dunque? Oppure ora che il tempo è tornato a scorrere nella casa Ida è nuovamente assoggettata al marito? E’ tornata forse ad essere un ingranaggio nel meccanismo familiare? Viktor si è veramente redento o è questione di tempo che le cose tornino come prima? Chissà, quel che è certo è che questo è un magnifico epilogo per un gran bel film.

Leggi tutto