Il valletto in nero / 30 Novembre 2016 in Don Giovanni

Per chi, come me, ha sempre avuto problemi a raggiungere la necessaria sospensione dell’incredulità di fronte a uno spettacolo teatrale o operistico, un film come questo consente di ottenere un’esperienza più soddisfacente, anche se il guadagno in realismo è com’è naturale molto limitato. Il travaso dell’opera di Mozart nel nuovo mezzo è nel complesso riuscito: l’ambientazione veneta è splendida e certamente batte qualsiasi scenografia teatrale, così come il punto di vista dinamico consente più libertà al regista e offre più varietà allo spettatore.
Non dirò nulla dell’aspetto musicale, per assoluta mancanza di competenza. Una cosa in cui ci si sarebbe aspettato uno sforzo maggiore è la sincronizzazione del doppiaggio, non sempre perfetta (tutte le parti cantate e i recitativi sono stati ovviamente registrati a parte); mi chiedo se con i mezzi tecnici odierni non sarebbe possibile produrre una versione restaurata e corretta del film. Un problema aggiuntivo, ma solo per gli spettatori del nostro paese, è la pronuncia italiana non sempre limpidissima (per esempio di Kiri Te Kanawa, Donna Elvira)
C’è poi chiaramente il problema dei cantanti che non sempre sono anche buoni attori, o a cui manca – alla lettera – le physique du rôle. Così, di fronte all’eccellente Leporello di José van Dam, abbiamo un grosso deficit di credibilità con la Zerlina di Teresa Berganza e il Don Ottavio di Kenneth Riegel. Esiterei comunque a dare la colpa al regista, che aveva probabilmente a disposizione opzioni limitate.
Molto felice, invece, è la scelta del protagonista. Ruggero Raimondi non ha certo l’apparenza di un seduttore; e tuttavia il viso incipriato dall’espressione torva, rotta di quando in quando da un accesso di allegria maniacale, e l’imponenza fisica rendono a meraviglia il lato più oscuro di Don Giovanni, la sua durezza, il suo orgoglio destinato alla perdizione.
Ma la scelta migliore riguarda l’introduzione di un personaggio che non è presente nel libretto di Da Ponte, per iniziativa di uno degli sceneggiatori, Frantz Salieri (lo pseudonimo – ovviamente – di Francis Savel, adottato però non per l’occasione, come si potrebbe pensare, ma già anni prima). Mi riferisco al silenzioso valletto in nero, cui presta il volto Eric Adjani (fratello di Isabelle, morto prematuramente nel 2010 dopo una vita travagliata). Impassibile, inquietante, quasi onnipresente (all’inizio e alla fine apre e chiude delle porte, e con esse simbolicamente il film), il valletto ha suscitato interpretazioni molteplici: coscienza di Don Giovanni, rappresentazione del fato, etc. È chiaramente un servitore, ma sembra anche un doppio di Don Giovanni: nell’overture regge per un attimo la mano a Donna Anna, che lo guarda sorpresa; nella cena finale usurpa il posto a tavola del padrone. In un’intervista Joseph Losey aveva spiegato questa duplicità rivelando come nelle sue intenzioni il valletto fosse in realtà un figlio illegittimo di Don Giovanni, con cui infatti condivide un neo in alto a sinistra sulla fronte. Ma qual è il senso del personaggio?
Mi sembra che il valletto costituisca in un certo senso una sintesi fra Don Giovanni e Leporello; più precisamente, che rappresenti ciò che Don Giovanni sarebbe stato se il suo ruolo nella vita fosse stato quello di servitore e non di padrone: non più Agente, ma Osservatore distaccato (anche se a tratti con un’ombra di risentimento). Losey aveva già esaminato com’è noto la dialettica servo-padrone nel Servo; nel Don Giovanni, ambientato in un’epoca di gran lunga più statica, i ruoli non si invertono, e il servo che avrebbe potuto essere padrone è condannato a muto testimone e strumento della vita altrui.

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