Un film teologico / 6 Novembre 2015 in Dogville
La scenografia teatrale, dopo lo shock iniziale, contribuisce a creare l’atmosfera unica di Dogville. E la vicenda di Grace mantiene l’attenzione desta per tutta la durata notevole del film. Ma è verso il finale che la chiave di ciò cui abbiamo assistito viene rivelata. Chi è davvero lo strano gangster, il padre di Grace, la cui attività sembra consistere nella punizione inflessibile di assassini e stupratori? Da quando in qua i gangster si dedicano a fare giustizia? Chi è davvero Grace, che non ha famiglia ma solo quel padre, che è mite e disposta a perdonare i suoi peggiori nemici, e che rimane in silenzio di fronte alle accuse del sinedrio convocato per giudicarla?
La luminosa Grace, la Grazia, è scesa nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. Lo spettacolo di un Dio Padre che convince il Figlio (beh, la Figlia, in questo caso) ad abbandonare la misericordia nei confronti di un’umanità irredimibile ha il fascino un po’ blasfemo dell’eresia radicale – ricorda un po’ il Borges di «Tre versioni di Giuda». Ricordo che una dozzina di anni fa, dopo essere uscito dalla sala, camminando al buio, mi erano venuti in mente quei teologi che hanno vissuto come un problema il fatto che all’incarnazione non sia mai seguita una visibile redenzione: chissà cosa avrebbero pensato della risposta di Von Trier, che l’umanità ha perso la sua occasione, e che siamo tutti dannati. E avevo provato, lo ammetto, un brivido di freddo.
Per la verità non è chiarissimo se la popolazione di Dogville rappresenti l’intera umanità o un suo campione particolarmente disgraziato. Per Von Trier Dogville è chiaramente in primo luogo una rappresentazione dell’America, come lasciano intendere i nomi simbolici (Thomas Edison), gli abitanti che intonano O Beautiful America, e soprattutto la canzone di David Bowie e le immagini dei titoli di coda. Ma per cosa stia a sua volta l’America non sappiamo; la scena più cruda del film sta quasi per ripetersi in un altro film dello stesso regista (Nymphomaniac), con lo stesso interprete (Stellan Skarsgård), ma questa volta in una (innominata) città europea. Si potrebbe pensare che Dogville, la città del cane, la città di Mosè, stia per un’altra città, teatro dell’antica vicenda che il film ripete e rovescia; ma ad evitare interpretazioni malevole – o semplicemente troppo arzigogolate – c’è il fatto che l’unico a salvarsi di tutta Dogville è proprio Mosè.
Per le soluzioni visive originalissime, per le interpretazioni, per i significati profondi, Dogville è indiscutibilmente un capolavoro. Resta il dubbio che il gioco intellettuale abbia preso la mano al regista, e che questo magnifico film sposi fino in fondo la teologia che sembra informarlo, risultando alla fine un po’ troppo manicheo.
