Recensione su Dogman

/ 20187.5343 voti

Il peso della vendetta / 19 Maggio 2018 in Dogman

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Pur ambientando il suo nuovo film in un contesto contemporaneo e realistico, con Dogman Garrone non abbandona il mondo della fiaba nera che, da lungo tempo, caratterizza la sua filmografia, ricordandoci che questa forma di racconto non è mai morta e che, anzi, permea costantemente la quotidianità, esprimendosi con un senso dello straordinario mai uguale a se stesso.
Ciascun elemento formale scelto da Garrone di concerto con i professionisti del suo cast tecnico, dagli sceneggiatori (Chiti-Troli-Gaudioso) alla scenografa (Giovanna Cirianni), passando per la livida fotografia di Nicolai Brüel, concorre a delineare una situazione in bilico fra incubo fiabesco e realtà.
Il protagonista del film, Marcello (l’incredibile Marcello Fonte, davvero bravo), è un toelettatore di cani. Uomo semplice e timido che ama gli animali in maniera incondizionata, Marcello è padre amorevole di una bambina e lavoratore onesto. Minuto, dalla voce querula e il sorriso spesso incerto, vive temendo gli eccessi di Simone (Edoardo Pesce, spaventosamente credibile, nel suo aspetto animalesco), un delinquentello violento che tiene sotto scacco un intero quartiere.

Il contesto è quello di una periferia metropolitana estremamente degradata dal punto di vista urbanistico e sociale, un gigantesco abuso edilizio mai sanato. L’architettura del luogo è repulsiva e straniante, dominata da cemento armato in disfacimento e ipotesi di centri di aggregazione umana mai completati, come lo spaventoso parco giochi per i bambini e l’aborto di porticato commerciale dove Marcello ha il suo negozio.
Eppure, per il protagonista questo è un piccolo regno fatato di tranquillità, dove egli vive, rispettoso e amichevolmente rispettato da amici e clienti, e in cui cresce, apparentemente serena, la sua amata figlia.
Marcello è lieto di lavorare con i cani, che lui ama incondizionatamente, è un uomo semplice che si accontenta di vedere i frutti dei suoi sacrifici, che sembra non crucciarsi dell’evidente decadenza di quei luoghi, della mancanza di prospettive che quello squarcio di città sembra offrire, della desolazione morale di un microcosmo che, come una cittadina della vecchia frontiera americana, gravita stancamente intorno a un saloon (la sala slot), una banca (il “vendo oro”) e una strip (la strada che porta al mare), dove si mastica polvere e in cui la giustizia si accontenta di colpire solo chi ha paura di difendersi.
La sua attività commerciale ha un che di curioso, all’interno di tale contesto. Pur squallida e incolore, perfettamente allineata con l’aspetto e il respiro generale del luogo (e, perciò, totalmente integrata con esso, come se il posto avesse stabilito un indiscutibile ma univoco gergo estetico), la toelettatura per cani di Marcello regala idealmente un tocco glamour e insolito a un angolo del quartiere. Il suo negozio non è crocevia di denaro e di vizi: è un posto in cui le creature, umane e animali, sono rispettate, per chi gravita intorno al negozio c’è sempre una parola gentile (il vocabolo che Marcello ripete più spesso, durante tutto il film, è “amore”).

Marcello è un uomo del popolo, l’equivalente fiabesco del contadino, del vaccaro, del falegname che lavora indefesso, un giorno dopo l’altro. Non è estraneo al vizio, al crimine, ma è come se queste aberrazioni facessero intimamente parte della sua cultura, ma egli non sembra averne pienamente necessità, le asseconda in virtù del quieto vivere, di un certo senso dell’omologazione (che riallaccio all’uniformità estetica del luogo in cui vive).
Invece, Simone il picchiatore è l’orco, il gigante senza morale e ragione che, regolarmente, scende al villaggio per fare razzia, vessare, spaventare. Dimostra di non avere alcuna caratteristica intellettiva che vada al di là di una furbizia animalesca, da primate: usa solo la forza fisica. Non ha scopi, se non quelli di arraffare, strappare, mordere e, per fare ciò, imbroglia, mente, in maniera elementare e, in realtà, estremamente goffa.

Qui, le caratteristiche fisiche de L’imbalsamatore si ribaltano: il nano è buono, il gigante è mortifero. Ma quella che, in prima battuta, sembra una sfida di retta astuzia degna di Jack e il fagiolo magico si trasforma presto in una triste parabola sull’inefficacia della vendetta e finisce per assumere toni perfino evangelici, non solo dal punto di vista formale e simbolico.
L’immagine scelta per la locandina ufficiale del film riflette bene il messaggio di Garrone. Marcello è un uomo che porta con fatica ma in silenzio la sua croce. Ma tale croce non è rappresentata tanto dalle vessazioni di Simone, quanto dal peso dei terribili effetti dell’inutile vendetta di Marcello.

Con Dogman, Garrone ha aggiunto un nuovo, significativo tassello alla sua personale rappresentazione della tragedia umana fatta di senso del possesso, brama, obnubilamento della ragione, rappresentazione di sé/percezione degli altri, mutazioni (mentali e fisiche), follia. Primo amore, L’imbalsamatore, Gomorra, Reality, Il racconto dei racconti e, ora, Dogman sono tutte raffinate rappresentazioni della desolazione di un animo umano profondamente egoista e incapace di concepire gli effetti delle azioni pianificate e compiute.
In questo senso, mi piace intendere il cinema del regista romano come profondamente pessimista, ma il suo è un pessimismo che, puntualmente, mi affascina e turba.

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