Recensione su Django Unchained

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Tra sangue e cotone / 17 Maggio 2013 in Django Unchained

“Non è proprio un western, è più un southern”. Tarantino sa bene che non bastano polvere, pistole, sceriffi e cavalli per fare un western, nemmeno se si tratta di uno spaghetti. E, infatti, se Django Unchained è ascrivibile a un qualche genere, beh, quel genere non può essere altro che “un film di Quentin Tarantino”.

Ennesima antologia di citazioni e ispirazioni rinvigorite dalla singolare poetica del regista americano, Django è la storia di uno schiavo nero (come Dumas) che, liberato dal bounty killer tedesco King Schultz (Christoph Waltz), si reca dal latifondista Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio sottilmente folle) per liberare la moglie Broomhilda. E, come se non bastasse, sulla sua strada non troverà solo redneck e schiavisti, ma anche un perfido Samuel L. Jackson, nei panni di un anziano servo nero che però fa il tifo per i bianchi.

Corbucci, Wagner e blaxploitation (ma anche Leone e Fulci) sono le fonti più immediate cui attinge Quentin per narrare nuovi episodi di vendetta e violenza. Ed è una violenza tutta diversa da quella canonica à la Tarantino, perché in Django viene raffigurata attraverso due regimi espressivi differenti.

Da una parte, le morti assurde, esagerate, sopra le righe, accompagnate da torrenziali fiotti di sangue, davanti alle quali è ancora possibile lasciarsi andare a una grottesca risata. Ma gli occhi cavati, le lacerazioni, le braccia spezzate, le sferzate inferte agli schiavi, sono, forse per la prima volta, torture e supplizi inferti anche al pubblico. Stavolta non si può ridere. Il dolore che passa attraverso lo sguardo di Django si trasmette anche allo spettatore. Gli schiavi malmenati, imprigionati, uccisi non sono personaggi che muoiono per svolte più o meno assurde della trama, come accadeva a Marvin in Pulp Fiction. Sono personaggi che muoiono per l’ignoranza e l’ottusa stupidità degli altri (basti guardare la scena dedicata al quasi-Ku Klux Klan).

Qua e là il film di Tarantino zoppica, è vero. Non è sempre brillante come Pulp Fiction, né ha l’immensa forza e consapevolezza cinematografica che trasudava da Bastardi senza gloria. Al montaggio non c’è più, purtroppo, la compianta Sally Menke, e il ritmo complessivo ne risente. Anche le scelte musicali, pur gradevoli e azzeccate, sembrano essere meno dirompenti. Forse perché il contrasto tra le immagini e la colonna sonora, stavolta, vuole essere affidato solo al rap di Black Coffins e ad Unchained, potente mashup di Tupac e James Brown.

Ma, alla fine, tra adrenalinici massacri, dinamite (quella sì, presa dagli spaghetti western) e puri momenti tarantiniani come la lectio magistralis di DiCaprio sulla frenologia, la bilancia continua a pendere dalla parte di un Quentin che, seppur un poco appesantito, sa ancora regalare momenti esplosivi.

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