Ultimo grande horror di una stagione ormai finita / 7 Settembre 2017 in Dellamorte Dellamore
Un paesino della Bassa Padana, Buffalora, ha una curiosa particolarità. I morti che sono seppelliti nel locale cimitero ritornano in vita dopo sette giorni e, come i più classici degli zombie, sono affamati di carne umana. A rispedirli nella fossa, con l’altrettanto classico proiettile nel cervello, ci pensa il custode del cimitero, Francesco Dellamorte. Ad aiutarlo c’è Gnaghi, un ritardato mentale che vive con lui nel cimitero, incapace di proferir parola a parte quell’unico verso (“gna”) che gli ha fruttato l’onomatopeico nome. Sembrerebbe una vita interessante, ma in un paese dove i morti tornano in vita e i vivi sembrano già morti, Francesco è soffocato dal tedio e dalla routine del proprio ruolo, tanto che a volte cede alla tentazione di “portarsi avanti con il lavoro” e uccidere i vivi prima che diventino morti viventi. Tra una tumulazione e una re-inumazione, il Nostro trova il tempo di vivere una surreale storia d’amore con una donna che si presenta ogni volta sotto diverse spoglie. Dellamorte Dellamore è tratto da un romanzo omonimo di Tiziano Sclavi, conosciuto ai più come il creatore della serie a fumetti Dylan Dog. Il romanzo, uscito nel 1991 sulla scia del successo che riscuoteva il fumetto, era stato ultimato in realtà già nel 1983, anno in cui curiosamente uscirono anche il romanzo Pet Semetary di Stephen King e il film Zeder di Pupi Avati che avevano uno spunto narrativo abbastanza simile: terreni dove chi vi è sepolto torna in vita. Il personaggio era già apparso nel 1989 in una storia del più famoso fumetto, uno speciale dal titolo Orrore nero, dove oltre a farlo incontrare con l’investigatore dell’incubo, riproponeva parte della trama del romanzo. A pubblicazione avvenuta, Dellamorte fu presentato come il modello da cui si era poi evoluto il personaggio di Dylan Dog. Il libro, come altri dell’autore usciti in quel periodo, era illustrato da Angelo Stano, l’allora copertinista della serie a fumetti. Altre caratteristiche accomunavano i due personaggi, tanto che molti scambiarono il film come una trasposizione del fumetto. Ad esempio, il fatto di usare come arma una pistola del medesimo modello (Bodeo), il passare il tempo costruendo un modellino che non finiranno mai, un teschio per Francesco, un galeone per Dylan, e di avere degli assistenti “particolari” come Gnaghi e Groucho. Ad alimentare ulteriormente il fraintendimento, il fatto che nel film fu chiamato Rupert Everett a interpretare il protagonista, attore cui i disegnatori s’ispirarono per il volto di Dylan, e che l’auto con cui si spostava nel romanzo, una Bianchina, fu sostituita nel film con l’inconfondibile Maggiolone bianco. In realtà i due personaggi, anche se sono entrambi facili alla melanconia, hanno un carattere completamente diverso: Dylan soffre di varie fobie, è romantico, idealista e rispettoso della vita umana, Francesco è invece cinico, disilluso e non si fa problemi a uccidere, come abbiamo accennato, anche degli innocenti. Il film di Michele Soavi, regista cresciuto sotto l’egida di Lamberto Bava e Dario Argento, è uno degli ultimi di un certo livello del defunto cinema di genere italiano. A lui e allo sceneggiatore va il merito di esser riusciti ad adattare un romanzo che, seppur già scritto sotto forma di sceneggiatura, appariva difficile da portare sullo schermo in maniera convincente, impregnato com’era di angoscia, senso di morte e depressione, male oscuro che ha afflitto l’autore per diversi anni. Dopo un inizio incerto ed eccessivamente grottesco, non molto dissimile dalle tarde produzioni di genere italiane con tanto di starlette televisiva (Anna Falchi), il film imbrocca il giusto equilibrio tra stravaganza e atmosfere oniriche, tra dramma, commedia e orrore puro, arrivando a un fantastico finale metafisico e poetico, diverso da quello spietato letto nel romanzo.

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