Recensione su Decalogo 1

/ 19897.949 voti

29 Agosto 2013

Una perfetta tragedia contemporanea, pregevole dal punto di vista estetico (riprese, atmosfera, colori, musiche) ed efficace nel coinvolgerci nel rapporto padre-figlio quando nel farci affezionare al bambino: il suo nome è Pavel, subito impariamo ad amare i suoi occhi, la sua voce, la sensibilità della sua intelligenza; ci inorridisce a un certo punto vederlo scomparire (letteralmente) e rivelare la sua vera identità: quella d’essere, nei meccanismi della vita e in quelli della tragedia, nient’altro che un archetipo: quello del Figlio – che serve ad attivare il meccanismo di colpa del Padre e il dissidio che innesca. Il motore propulsivo della tragedia è la scena – forse la più bella del film – della boccetta di inchiostro (nero, come la morte e la colpa) che si rovescia inspiegabilmente sulle carte e i libri bianchi (che restano inerti, non sanno spiegare), quindi sulle mani di Krzysztof, diventano simbolo della sua imminente sconfitta in quanto professore e in quanto padre: da una parte la scena evoca una rottura nella trama degli eventi consequenziali (di cui la ragione si vanta di conoscere la chiave), dall’altra la colpa della quale cercare invano di lavarsi le mani; il nero ha ormai invaso l’innocenza del bianco e la tragedia è compiuta.
Attenzione: si tratta di tragedia perché attraverso la morte Pavel la sconfitta dell’essere umano è totale; l’uomo è sconfitto in quanto Padre e in quanto Figlio, non può salvarlo la fede né la ragione che sono due forme diverse di hybris. Certo la ragione è la vittima più esplicita: è l’idolo che vuole donare sicurezza (il determinismo atmosferico), felicità (la vittoria a scacchi), ma anche delusione (l’esperienza di un limite: il pc deduce che la mamma sta dormendo ma non sa cosa sta sognando) e paura (il pc che si accende da solo, sussurrando in modo minaccioso o beffardo “I am ready”). Ma se il film testimoniasse semplicemente la sconfitta della ragione, non si tratterebbe di una tragedia, perché nella fede ci sarebbe salvezza e senso; questo sarebbe stato il messaggio del film se la vittima fosse stata il padre. Ma a morire è Pavel, ossia il figlio che, per antonomasia, rappresenta l’innocenza. Con lui sono l’essere umano e la vita stessa a essere sconfitti: a morire è l’unico personaggio che aveva saputo aprirsi alla dimensione della fede quanto della ragione; era l’unico personaggio vivo, espresso narrativamente dall’essere sempre in movimento: domanda, osserva con curiosità, corre, pattina. Ha davanti a sé il mistero della vita e tutto lo entusiasma e interessa (l’esperienza del limite attraverso l’incontro con un cane morto). Si tratta di tragedia perché la vittima è l’innocenza e a restare vivi sono il padre e la zia, ossia le due figure immobili e quindi già morte (il padre resta fermo in piedi, incredulo del tradimento della ragione; la zia si inginocchia rimanendo ferma nell’apparenza della fede). Il grigio del lago ghiacciato (doveva essere speranza di un gioco, diventano una trappola: questa è la vita) e il grigio del cielo si rispecchiano a vicenda e schiacciano l’uomo in una morsa inesorabile.

Dal Blog di Un Fachiro al Cinema: https://unfachiroalcinema.wordpress.com/2014/08/15/decalogo-1/

Lascia un commento