Due ore di meno ed era un capolavoro pure per il Don. / 8 Febbraio 2014 in Death in the Land of Encantos

“Hamin era un artista impegnato, ha dedicato tutta la vita alla realizzazione delle sue opere. A modo suo, con il suo contributo si è impegnato per la nostra cultura. Spero che possa avere il rispetto che merita…”

Death in the land of Encantos è un grido, una scossa, è un pugno allo stomaco. E’ il primo film del regista, Lav Diaz, che vedo ed ha una serie di punti a proprio favore che mi hanno davvero colpito. Inizio subito col dire che Lav Diaz con strumenti amatoriali ha dato vita ad un bel film. Con realismo è stato in grado di descrivere un trauma, una ferita aperta e una Nazione. Il film è incentrato sulla figura di Benjamin Augusan, poeta maledetto, intellettuale affascinato dalla Russia e dall’Europa, e su una miriade di uomini e donne vittime non solo del maremoto ma anche e soprattutto di un sistema corrotto. Il poeta ritorna perché la sua terra natale è sepolta, le sue origini sono distrutte, una parte di sé è nel fango.

No, il poeta ritorna perché in passato non è stato corretto con sé e con chi gli è stato attorno. Il poeta torna con un bagaglio di esperienze che invece di averlo riempito lo rendono ancora più vuoto di quello che era. Si è fatto una nuova vita e i risvolti sono stati tragici, è fuggito da una famiglia devastata e quando torna è come se i problemi del suo piccolo mondo, quelli del nucleo famigliare abbandonato, si siano trasformati in quelli di un intero Paese. La follia galoppante, la devastazione, la desolazione, la critica al sistema politico Filippino portano la pellicola su un’altra dimensione
Si passa dal semplice documentario all’inchiesta, dall’inchiesta al documentario.
Lo affiancano altri due caratteri, due macchiette, intellettuali che condividono con il nostro il percorso artistico e biografico.

Death of Encantos è qualcosa di prezioso per il mero fatto che ci fa porre delle domande. Vedendo il film poi ho notato numerose affinità fra quello succede ai numerosi personaggi e quello che succede nel nostro Paese (Italia), usi e costumi, come (non) vengono risolti i problemi, le abitudini locali, le feste imposte. Imposti sono una serie di riti e perfino l’uso del tempo (forse è la spiegazione alle 9 ore di film ?). Una delle poche pecche è il ripetersi di alcune situazioni, ad esempio una serie di interviste, che messe in un contesto di 9 ore di film (e badate, 9 ore sono tante) fa perdere punti.
Forse la cosa che mi ha dato più fastidio è stato il dover trovare lo spazio di 9 ore, in una settimana, per vedere il film. Ho capito che in un certo senso vedere la pellicola è una sfida personale oltretutto è l’opera che una sfida gli standard e le tempistiche del Cinema attuale (o di un certo cinema attuale) ma a mio avviso è l’ approccio sbagliato.
Probabilmente, non avendo 9 ore di tempo libere in un giorno, se non l’avessi diviso in parti, non l’avrei visto. Pienamente soddisfatto
Diaz poi va giù pesante con le critiche ai connazionali, schiavi del colonialismo spagnolo prima, americano o giapponese poi, schiavi del sistema politico attuale. In soldoni quello di fronte ai nostri occhi è un’attenta analisi alle Filippine e ai Filippini, una critica e un elogio, un film che annichilisce e che sorprende con rimandi e citazioni al pensiero Russo, all’arte Moscovita in generale. Death in the land of Encantos è tutto ciò e forse un po’ di più.

DonMax

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