6 Recensioni su

Il nastro bianco

/ 20097.8153 voti

. / 27 Settembre 2016 in Il nastro bianco

Ringrazio la mia ex professoressa di filosofia per avermelo fatto vedere e di avermi illustrato il significato intrinseco alla storia. A me è rimasto impresso.

26 Aprile 2014 in Il nastro bianco

Haneke vince su tutti in fatto di violenza, non smetterò mai di dirlo.
In questo film in particolare ci sono dialoghi che fanno più male di qualsiasi violenza fisica che si possa mostrare sul grande schermo. E dire che ho visto il film solo una volta, ma mi ricordo alla perfezione ciò che dicevano i personaggi che più ho amato e allo stesso tempo odiato all’interno del film (il prete e il dottore). In più la fotografia non si può far altro se non amarla.

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Voglio un passato migliore / 16 Marzo 2013 in Il nastro bianco

Nel film di Haneke lo spettatore è situato all’interno della narrazione poiché è l’unico testimone della Verità. Ammettere vorrebbe dire arrendersi alle proprie responsabilità verso se stessi, i propri figli e il loro futuro. Guarda alle radici del Novecento di tutta Europa, un secolo segnato dal sangue e dalla discriminazione. La responsabilità è quindi nelle mani dei nostri padri e il risultato sappiamo bene qual è.

(Il titolo della recensione è da “I tuoi weekend mi distruggono” http://open.spotify.com/track/1i3QjR4Bpc6Lit0UPTytts)

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24 Dicembre 2012 in Il nastro bianco

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Your attention please, saltate pure perché sarò prolisso, non vorrei smarrire la mia solita pacatezza ma questo film per me è stato un capolavoro *_*
Da dire che c’era in sala anche gente che russava. Per cui se avete dei problemi, ecco, per esempio con i film dove non succede nulla, mh, allora temo non vi possa capolavorsembrare.
Allora, nero su bianco, è una storia ambientata in un villaggio della campagna tedesca poco prima dello scoppio della I guerra mondiale. Oh, sveglia coglione stai vedendo un capolavoro!!! Ma pensa un po’, dormire…
Strani fatti, di cui non si trova il colpevole, accadono. Il dottore si scassa cadendo da cavallo per un invisibile filo teso. Una donna muore in una casa pericolante e un granaio è dato alle fiamme. E così via. La storia è raccontata dal maestro del villaggio. Al maestro fanno da contraltare altre tre figure maschili, il barone, che da lavoro a quasi tutti gli abitanti del villaggio, il pastore (se non c’è un prete strunz pure questi luterani non son contenti); a cui si aggiungerà il dottore una volta guarito. Dunque. Questi personaggi non posseggono nome proprio, sono solo pastore, maestro, dottore ecc. Il maestro fornisce il punto di vista con la narrazione in prima persona, ed è colui che verso la fine cercherà di avvicinarsi alla verità senza arrivarci. Intorno ad essi si muove la vita di una società dove le donne non contano nulla (ma proprio nulla eh, alcune neanche come buchi da fottere – per dire) e i bambini, tanti e con gli occhi azzurri e i capelli biondi, vengono allevati nel rigore dell’ideologia religiosa, con tanto di punizioni corporee per chi sbaglia e il nastro bianco del titolo, che il pastore lega al braccio dei figli per ricordargli di essere puri. Il villaggio è un microcosmo chiuso dove l’angoscia per questa serie di delitti sempre più gravi sale col tempo, trasformando ogni sguardo in sospetto del prossimo e rivelando pian piano ogni personaggio nella sua meschinità. Il maestro, e la giovane tutrice a servizio del barone di cui è innamorato, sono gli unici a preservare un barlume di umanità in tutto ciò. Nonostante vada detto che lui sia davvero molto brutto (no, va sottolineato, non si capisce come lei si innamori di lui). Forse non tutti sanno che (aka: cazzo, ho scordato di dire) il regista è Michael Haneke (di cui per non essere ignoranti dovete aver visto Funny Games, possibilmente l’originale e non il remake), austriaco che si ritrova la capacità di mettere la violenza nei film senza doverla per forza mostrare. Porre le domande piuttosto che dare le risposte è un po’ il suo slogan, e infatti qui il mistero non è affatto svelato ma (spoiler) lo si capisce ca**o che sono stati sempre e solo i bambini a fare tutto. Il bianco e nero è allucinantemente funzionale alla distanza del racconto dagli eventi narrati (anche perché provare simpatia, o empatia, per dei personaggi del genere è dura), c’è tutto uno studio dietro sulla composizione formale delle immagini, soprattutto negli interni, che a me faceva continuare a pensare Dreyer Dreyer; allora sono andata a leggere delle critiche finché non ho trovato qualcun altro che dicesse Dreyer. E ci ho pure messo un po’. Ma poi Dreyer Dreyer non solo per quello, anche per lo sfondo religioso sul quale si svolge l’azione (Dies Irae, sia gli interni sia la religione), questa morale scultorea che definisce i comportamenti e le punizioni. Al bambino che si fa le pugnette vengono legate le braccia al letto quando va a dormire, e così via. E per la scelta degli attori, terribilmente primi ’900, non so quanto ci abbia messo, Dreyer Dreyer la teoria dell’attore come strumento che si pesca in una cassetta degli attrezzi da usare per un determinato fine. Oh, insomma, come la scelta (di Dreyer) quando doveva selezionare gli attori per la giuria del processo in La passione di Giovanna d’Arco (no, dico, più chiaro di così). E poi ok, i bambini biondi, anche a un John Carpenter col suo Il villaggio dei dannati si può pensare.
Ho finito, il succo è che i bambini (boh, ma tanto è sempre colpa dei bambini, ma nessuno pensa ai bambini?) hanno interiorizzato il rigido modello di violenza nascosto sotto la superficie di quel tipo di società. E la loro non è che la reazione. Notare bene che i biondi bambini tedeschi della I guerra mondiale saranno i biondi nazisti della II guerra mondiale, crucchi dimmmerda. Anche se Haneke in proposito ha parlato del suo film come la messa in scena di uno schema più universale di interiorizzazione e reazione alla violenza, quando una cultura ideologica si impone con la forza alla nuova generazione che non può reagire altrimenti che con altrettanta violenza. Insomma, i nazisti ma non solo i nazisti.
(Però lo vedi troppo quei bambini biondi e carucci saranno dei supernazisti). Achtung!

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Haneke non è Bergman: ma quanto gli somiglia! / 25 Giugno 2012 in Il nastro bianco

Un capolavoro.Haneke tenta di rivoluzionare le regole del cinema moderno,facendo scuola di stile e raccontando un qualcosa di complesso ed estremamente affascinante.Haneke continua la sua analisi sul conflitto della relazione tra uomini e donne(come in “La pianista”) e in questo caso,anche bambini.Anno 1913,in un villaggio della Germania,fortemente religioso e di una monotonia che segna lo stile del regista,avvengono fatti strani ed inquietanti:Un attentato ad un medico,alcuni fatti accaduti a dei ragazzi,una serie di omicidi.Al centro del film ci sono i bambini:Tra modelli più o meno logici da seguire,la gioventù tedesca del pre-conflitto bellico,si presenta come una spungna,che assorbe,assorbe e assorbe la violenza del potere,e quando la fa evadere compie atti impossibili per molti,agli occhi dei bambini.In un b/n che ricorda “Sussurri e Grida” di Bergman,Haneke non è interessato alla sovraesposizione del male nelle sue forme del conflitto,ovvero nel capire chi o cosa compia quelle azioni,ma bensì a fotografare una comunità di devastante realtà in quel periodo.Vediamo anche che,quando il medico del villaggio ipotizza che i bambini siano i responsabili degli inquietanti fatti,viene etichettato come folle dal pastore del paese.Questa scena è probabilmente la migliore del film perchè indica il devastante rifiuto alla realtà dell’uomo,che non riesce ad accettare che (forse) i suoi figli,i figli del suo vicino,degli altri nel paese siano responsabili di atti talmente crudeli,poichè vorrebbe dire ammettere di non averli educati nel giusto modo.Il film è tutto un flashback del racconto di un vecchietto,presente nel villaggio,che non si prende resonsabilità sulla realtà del mistero(“Non so se la storia che voglio raccontarvi corrisponda o no al reale”) e narra con calma piatta una storia tutta incentrata sulla comunità in stile “DogVille”,e non su un mistero bergmaniano.Anche se gli echi a Bergman non sono pochi:Oltre al b/n che lo ricorda vivamente,lo sviluppo dei bambini come potenziali colpevoli e la figura della donna maltrattata,sono di puro spunto bergmaniano.Il film ha meritatamente vinto la Palma D’Oro a Cannes nel 2009,oltre che il Golden Globe come Film Straniero.Notevole anche il fondamento dei crimini:Il figlio di un barone viene seviziato; la finestra della camera di un bambino viene lasciata aperta e questo rischia di morire; scoppia un incendio nel fienile del; ed un altro bambino viene torturato.Probabilmente bisognerebbe arlare della piena educazione dell’autore del film,nel ricreare una comunità difficile e meschina,in cui l’educazione dei bambini viene espiata tramite una serie di punizione temporale.”Il nastro bianco” è un titolo indicativo:Il nastro bianco era un nastro che si legava al braccio o ai capelli e che indicava l’innocenza del bambino,fino all’età adulta.Lo sguardo incuriosito e attento dei bambini,che scruta ogni minimo soffio di vento,in un clima di desolante attesa che riesce a conquistare,ad avvincere,ma anche a colpire lo spettatore dritto al cuore.Sono i classici pizzicotti di Haneke a dare uno sviluppo eclatante alla vicenda,altrimenti priva di ogni mordente.Meno “Funny Games” e più “La pianista”,anche se ricorda Bergman e Von Trier,piazzandosi ad un livello intermedio di straordinaria vitalità.La voce off non è invadente nè rischia di portarsi addosso antipatie nel percorso,poichè la storia non può esistere.Tutto sembra un sogno straordinario,in cui essere trasportati grazie ad un Haneke che si fa vittima e carnefice.Invece di essere,come sembrerebbe un film neo-neo realista,è un esperimento di cinema onirico,oltre che un cult assoluto.E scusate se è poco.

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18 Maggio 2011 in Il nastro bianco

Mi è piaciuto, certamente la magniloquenza silenziosa e ritratta della fotografia domina l’intero film, e mi piace.

E’ forse vero che è un po’ il solito Haneke, però la sua rilettura dell’origine della violenza, senza trarne una soluzione, è decisamente affilata e precisa. Un mondo così ordinato, preciso, cadenzato da riti e gerarchie, che guida una umanità banalmente dedita alla sopraffazione e testimonia un periodo preciso di quella germania, ma svela molto delle dinamiche individuali e di gruppo. Perchè se in ogni casa, in ogni famiglia c’è una meccanismo di potere e di violenza, i bambini si muovono in gruppo, sono una massa silenziosa, la loro forza è anche nell’essere insieme, nell’essere molti, nel condividere quello schema che ripetono sui deboli, dividono la colpa, perdono la responsabilità, perdono l’imputabilità.
IL villaggio non si scuote mai dal suo torpore ordinato, come se riuscisse ad assorbire tutto, a tacitare ogni cosa, impermiabile.
E Haneke non ci fa mancare nulla, espone ogni forma di potere sui più deboli, da quelle derivanti dalla struttura sociale a quelle derivanti dalle istituzioni religiose e dalla famiglia patrircale nel rispetto del decoro e dell’occultamento nel privato, senza che nessuno si renda poi conto come quella stessa violenza esploda poi fuori incrociando i destini di tutti. E lo fa per reazione, rivolta contro quel mondo, replicandola in grande scala. E non c’è in tutto il film un vero grande mostro, ci sono solo piccoli, servizievoli esecutori di un male molto quotidiano, appunto molto banale.

Curiosa la visione del meridione dell’europa, segnatamente l’italia, posto tratteggiato come aperto, tollerante, capace di rompere il meccanismo di refrattaria subalternità alle regole

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