Recensione su Daisy Diamond

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2 Novembre 2013

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

“Tu vuoi essere, non sembrare di essere”, diceva Margaretha Krook in “Persona” di Ingmar Bergman. E non è tutto, perché “Daisy Diamond” di Simon Staho è una costante, fluida citazione del suddetto cult del cinema svedese. “Credo che l’arte di recitare abbia enorme importanza nella vita, specialmente per chi non sa superare da solo le proprie difficoltà”: ed è questo che fa Anna, sale sul palco e mette in scena la sua vita (o è la vita ad essere tutta una recita?). Sale su quel palco, declama il suo copione alla perfezione, con un’intensità d’espressione come forse poche sanno avere. Ma Daisy piange e piange; ininterrottamente piange. Piange per Anna che non sa essere madre; che nella negazione dell’infanzia, di quella figlia venuta al mondo dalla violenza, le parla in continuazione. Cerca una risposta alla sua frustrazione, a una maternità non desiderata, al suo esasperato senso di inettitudine tra l’amore e l’accettazione di sé (ulteriore rimando all’analisi della sfera femminile di “Persona”).

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