Recensione su The Lunchbox

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17 Agosto 2014

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

A quanto pare in India c’è questo sistema assurdo per cui un servizio passa a raccogliere il pranzo dei singoli impiegati in ogni casa, ma milioni eh, tutti questi lunchbox passano attraverso mille mani e viaggiano su 8 mezzi di trasporto diversi, e poi vengono consegnati sulla scrivania del singolo impiegato di cui sopra. E sostengono che funzioni. Proprio da un disfunzionamento del sistema nasce il pretesto della storia, epistolar-gastronomica, tra Ila e Sanjaan, lei una tizia sposata con figlia e che il marito non sbombazza più a dovere (eh, oh. Let’s go!), lui un impiegato indiano come ce ne sono milioni, senza più granché nella vita e sul far della pensione. Hanno entrambi un contrappeso narrativo, lui nel nuovo assunto che dovrà prendere il suo posto, lei in una zia vicina di casa – la tizia continua a urlare ZIAAAAAA, ZIAAAAAAAAA, alla (ti)zia sempiternamente fuori campo. Siamo impiegati indiani e abbiamo camicie brutte (oh, ma parli tu?), l’india dei colletti bianch… vabbè, dei colletti, con una ambiente circostante che palpita di eterna confusione e corpi ammassati in uffici/treni/qualsiasi, manco fossero tutti Laocoonte.
Si tifa per l’incontro dei due, a suo modo sembra un po’ una relazione via chat di quelle postmoderne, e si rimane delusi, perché troppo pacati e sensibili sono i caratteri dei personaggi, timorosi di ferirsi e di ferire. E mentre lui accetta di non chiedere altro, lei impara dall’intera storia che la sua vita sucks ed è ora di andarsene in Bhutan.
E ora via alle battute sulle Bhutane è_é

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