Recensione su Crimson Peak

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A margine il “fantastico” / 2 Novembre 2016 in Crimson Peak

Nel cinema di Guillermo Del Toro c’è sempre qualcosa che si apre (sebbene spesso sotto forzatura), e lascia intravedere misteri, universi immaginari, nuove frontiere del fiabesco. Che sia una scatola, simile ad una valigia, con incise delle iniziali, o un recipiente, simile ad un pozzo, pieno di argilla rossa che pare sangue raggrumato, poco importa. L’idea creativa per il regista messicano si instilla a partire da quello che questi oggetti/contenitori nascondono, quello che celano, quello che attendono di rivelare, e che poi mostrano, con fascino, od orrore (è questo il caso), con forza, o con stupori o grida trattenuti. E’ il suo cinema, in fondo, un baule pieno di creature fantastiche, di mostri, di fantasmi, di robot giganti, di case scricchiolanti, di fascini misteriosi, di mondi sommersi, e labirinti intricati: di un primo piano che si ostenta, ma che non è quello che sembra, perciò di uno sfondo ben più determinante, importante. La dialettica è tra la storia principale e quella marginale, tra il melodramma amoroso del fratello e sorella e la giovane sposa di lui e il racconto di una casa piena di fantasmi; tra la ricostruzione storica e verosimile della realtà di fine ottocento, e la fantasia del paranormale: il concreto visibile nutrito dal fantastico celato.
E “Crimson Peak” non fa altro che confermare questa poetica ricca di suggestioni e visioni, potenzialmente fertile per il cinema. L’horror è il genere che richiama le atmosfere degli esordi, ed è quello che più si addice a incanalare ed esaltare lo stile di Del Toro. Fondata sui cliché noti, la narrazione si innerva però di trovate visive che ne impediscono l’appiattimento o l’adagiamento; i misteri non svelati, gli inganni architettati, rendono l’ingranaggio ben oliato, e la suspense, costruita su basi stilistiche più che in sede di sceneggiatura, e per questo ancor più apprezzabile, garantisce un coinvolgimento costante. Alla fine, quando la nebbia si dirada, ciò che resta ha il sapore amaro del già visto, o già sentito, dentro l’ampio contenitore dell’horror; ma la molla di un amore meccanico e meschino, che scardinandosi dal meccanismo (narrativo e semantico), diventa libera, e perciò simbolo di un amore vero, è la punta di lirismo che appartiene al mondo di Del Toro al pari di tutto quell’immaginario precedentemente citato. Anch’essa marginale. Ma proprio per questo importante.

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