L’uso del bianco e nero (che dà quel tocco vintage) è stata una mossa vincente per ricostruire la malinconia di Ian Curtis e farci tornare con la mente negli anni ‘70.
Quelli in cui è nato il punk e le icone underground, come Bowie o i Sex Pistols, spopolavano nella sfera musicale inglese, facendo sognare milioni di persone in tutto il mondo.
E non importa se esistevamo già o no, tutti attraverso la musica abbiamo potuto vivere quegli anni di trasgressione e novità. O almeno immaginato di esserci.
Ma Anton Corbijn ha voluto raccontarci una storia in particolare, quella di Ian Curtis, cantante e frontman dei Joy Division. Dell’uomo prima del mito.
Ci sarà data l’opportunità di ripercorrere insieme ai protagonisti la breve storia di questo gruppo nato e morto col suo creatore. Dalla formazione alla fama, fino al triste epilogo che diede un taglio alle loro carriere in pieno decollo dopo il successo di Closer (1980). Carriere che fanno solo da sfondo al percorso psicologico del protagonista, interpretato da un Sam Riley eccezionale. Perfetto nel suo ruolo da romantico problematico.
Il tutto senza tralasciare mai il lato umanamente instabile del giovane Ian. Senza mai abbandonarlo nel suo sguardo basso e schivo, nella sua fragilità, nel suo disagio dilaniante. Affonderemo insieme a lui nella depressione, centimetro dopo centimetro. Ci faremo divorare dai suoi problemi d’amore, dall’epilessia, dalla (op)pressione data dal successo. Dall’incontrollabilità di tutti questi fattori combinati.
Corbijn presenta una storia lineare, senza troppi pregi e difetti che deve tutto il suo charme oscuro ed emotivo alle note e alle parole di questo psicolabile che ha fatto la storia della musica. E che meriterebbe un posto in ogni collezione musicale che si rispetti.
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