Recensione su Cloud Atlas

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L’atlante del Cinema / 27 Gennaio 2017 in Cloud Atlas

“Cloud Atlas” ha diviso pubblico e critica. A me ha convinto, pienamente. L’opera dei fratello&sorella Wachoski e Tom Twyker è un esperimento riuscito: è impossibilità, è ambizione allo stato puro, è coraggio artistico invidiabile; è, anche, ostentata sicurezza delle proprie qualità, dei propri mezzi. È cinema: di complessità teorica e concettuale, amalgamata con un senso ampio e profondo dello spettacolo. È cinema: perché pur raccontando sei storie diverse, altrettanti generi cinematografici, e cinque epoche storiche diverse, mantiene ben visibile il sottile filo della narrazione, che le unisce tutte, le incatena una all’altra, a comporre un mosaico pieno e ricco, abbondante, smisurato. È cinema: perché è sinfonia, letteratura, architettura, pittura, scultura. La settima arte, che ingloba le altre.

Attraverso cinque secoli, la storia madre racconta sei storie figlie diverse tra loro: “1849. Nel Pacifico del Sud l’avvocato americano Adam Ewing si ritrova in affari con il Reverendo Horrox e durante il lungo viaggio di ritorno in mare stringe amicizia con lo schiavo di colore Atua. Un incontro che gli salverà la vita e modificherà la sua visione sullo schiavismo. 1936. Il compositore Robert Frobisher diventa apprendista del grande compositore Vyvyan Ayrs. Insieme a lui scriverà l’opera musicale The Cloud Atlas Sextet. 1973. A San Francisco la reporter Luisa Rey viene a conoscenza di un dossier che accusa i dirigenti di una centrale nucleare i cui intenti sono una seria minaccia per la popolazione mondiale. Inghilterra 2012: l’editore Timothy Cavendish è alle prese con violenti creditori che lo costringono a trovare rifugio in una casa di cura. 2144 Nuova Seoul: Sonmi 451 è progettata per essere una semplice cameriera di un ristorante all’interno di un mondo in cui la società totalitaria ha avuto la meglio sulle classi più povere. Grazie al rivoluzionario Hae-Joo riesce a fuggire e a diventare un’eroina della resistenza. 2321. Dopo la Caduta, il mondo sembra tornato a uno stato primitivo. Il pastore Zachry si imbatte nella Presciente Meronym, la quale costringerà l’uomo a rivedere le proprie credenze ancestrali e il proprio destino” (sentieriselvaggi.it). Avventura, thriller, commedia, fantascienza, azione. Gli autori scrivono sei pagine di cinema di genere, confrontadosi con più stili, con più tecniche, procedendo piano e silenziosamente in alcuni casi, portando caos e movimento in altri: esaltando una potenza scenografica sbalorditiva, e un montaggio di rara precisione e pura qualità, quasi da ammirare come elemento artistico a sé. Queste sei parti sono accomunate solo in alcuni casi da precisi rimandi diegetici, altrimenti sono unite precisamente solo dalla medesima struttura ideale di base: l’anima o, meglio, la coscienza, degli esseri umani: che ritorna, ciclicamente, nella storia, ad incarnare individui “altri”, diversi nell’aspetto, ma uguali dentro. Queste anime che si perdono, per poi ritrovarsi in un epoca diversa, per amarsi nuovamente. Anime, quindi, rappresentate nel film dagli stessi attori, un cast stellare che annovera, tra tutti, Tom Hanks, Halle Berry, Hugo Weaving, sottoposti a massicce dosi di trucco, per cambiare volto, adattandolo al preciso periodo storico. Cloud Atlas non è un rompicapo, Cloud Atlas non va cercato di capire nella sua storia, perché le microstorie non hanno particolari collegamenti, come dicevo prima, una non spiega l’altra, e l’altra non spiega quell’altra ancora: va percorso nella sua strada narrativa, che c’è, è precisa e curata, e ti conduce, senza risparmiarti qualche fatica, è vero, ma ti conduce verso il finale, senza farti perdere. Cloud Atlas non va capito. Cloud Atlas va vissuto: come pura esperienza sensoriale. È lo spettatore che si farà coinvolgere da ognuna delle sei storie, e coglierà da ognuna di queste i suoi personali, di cuore e di mente, collegamenti. Personali, non degli autori, non di sceneggiatura. Il film di fatto è un’opera sinfonica, non a caso “Cloud Atlas” è “L’atlante delle nuvole” di Robert Frobischer. È un’opera filosofica: a volte filosofia scontata, non profonda, ma coerente con la natura principalmente spettacolare del film. È un’opera tematica, perché ci parla di tanto, tantissimo: d’amore, speranza, amicizia, dolore, tradimento, separazioni e sofferenza, di famiglia, di arte e ambizioni, di sacrificio, di religione e Dio, di Creazione, del senso della vita, del senso dell’atto del vivere.

Tanta carne al fuoco. Che però non si brucia. Anzi, è cotta ottimamente dai suoi autori, e alla quale è mancato forse solo un pizzico di sale in più per renderla saporita nel modo migliore possibile. E renderla indimenticabile.

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