Recensione su Brooklyn

/ 20157.0214 voti

Cosa c’è oltre lo specchio? / 18 Marzo 2016 in Brooklyn

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

I punti centrali per un’analisi su Brooklyn di John Crowley si trovano nelle tre candidature ricevute in occasione dell’88° edizione dei premi Oscar: per la miglior attrice protagonista, Saoirse Roran, per la sceneggiatura non originale di Nick Hornby, tratta dall’omonimo romanzo di Colm Tóibín e, ovviamente, per il miglior film. Non ha portato a casa nemmeno uno dei tre premi, andati a concorrenti sicuramente più validi ed attrezzati. Però questo riassume cos’è questo Brooklyn, un film da Oscar, pensato e poi costruito in tale senso, e quindi pur restando un drama (a tratti melò a tratti meno) di struttura solida e poco incline a banalità o facilonerie, non riesce ad espiare questo peccato originale, e si confeziona lucidamente per apparire bello davanti allo specchio, senza volerci dire, fino in fondo, cosa ci sia oltre quello specchio.

Fa da sfondo alla vicenda della giovane Eilis Lacey l’emigrazione massiccia di molti europei a cavallo della metà del secolo, nello specifico irlandesi come la protagonista, verso l’America e New York, alla ricerca di un lavoro e una sistemazione che la terra natia, in crisi economica, non riusciva a dare e permettersi. Questo è il primo punto costitutivo su cui si fonda la sceneggiatura misurata e mai eccedente di Hornby; l’altro sarà la storia d’amore con l’idraulico italiano Tony (Emory Cohen), il vero centro di un ipotetico quadro film. Lo sfondo resta sommariamente trattato, quasi con un acquarello spento, poco incisivo: compare il tema dell’emigrazione, l’America degli anni ’50, terra feconda d’avanguardia, che si evolveva prepotentemente elargendo possibilità e sogni, come madre generosa, la Brooklyn irlandese, che diventava una comunità sempre più grande, che guardava i grattacieli da lontano perché di là del fiume. Ma nella logica compositiva del film è volutamente lasciato così: il centro è Eilis, è occupato dalle sue azioni, dai suoi drammi, dai suoi pensieri, dai suoi primi piani, i suoi vestiti e modi di essere e di fare.

Interpretata da una sempre più convincente e in questo caso ben delineata nelle forme Saoirse Roran, Eilis è la ragazza tutta d’un pezzo, educata e gentile, equilibrata. La sua partenza sancisce in modo netto il passaggio dall’adolescenza all’età adulta: e se questo passaggio nella norma risulti un qualcosa di sfumato, dai contorni poco chiari e poco riconducibili a momenti precisi – tant’è che spesso anche da adulti non si riesce a capire quanto si sia rimasti adolescenti -, per la protagonista di Brooklyn si costituisce come una scelta. Lei sceglie di partire, di rompere con il passato, con il suo mondo, di lacerarsi il cuore per abbandonare una sorella che ama e da cui è amata, e una mamma premurosa e sofferente, per accedere in un altro mondo, nuovo, sconosciuto, troppo grande. Di fatto sceglie di diventare adulta, non è cosa da tutti. Il viaggio travagliato in nave è il preludio scontato alle enormi difficoltà di adattamento nel primo periodo: la nostalgia di casa le attanaglierà il cuore, non la farà dormire la notte, e righerà il suo volto di lacrime anche nel nuovo posto di lavoro. Lo strappo può ricucirsi riuscendo a mettere radici, radici profonde, che riescono a scavare quando sono mosse dalla forza dell’amore: e ad arrivare tanto in profondità quanto è più autentico e vero questo amore. L’incontro con Tony sarà quindi la svolta per Eilis e la sua vita: in lui, che poi deciderà anche di sposare, troverà il perno di riferimento, a cui restare aggrappata, nonostante la sua nave spesso vacilli nel mare dell’emozioni e delle paranoie. Paranoie che aumentano quando la prematura ed inaspettata scomparsa della sorella costringerà la ragazza a tornare in Irlanda dalla madre, e a scontrarsi nuovamente con il suo mondo, apparentemente diverso, che le offre prospettive di lavoro, di marito, il giovane Jim Farrel (Domhnall Gleeson), quindi di stabilità, di futuro.

Il quadro è completo, ed appare chiaramente come il più tipico dei melodrammi, caratterizzato anche da un humour sottile e piacevole, che fa da collante negli scarti tra situazioni felici e tristi. Ma non si discosta per originalità, né di contesti, né di taglio stilistico: la storia di Eilis si fa guardare e piacere, ma non appassiona, perché manca di punte di pathos ed empatia; racconta il necessario, mai scade nel superfluo ed è un pregio, ma non il di più: ci aggrappiamo a Tony, anche noi, nel finale, consapevoli che sia stata la scelta giusta, coerente con quella fondamentale di scegliere di diventare adulta, ma non si va oltre quell’abbraccio, alla ricerca di un messaggio più profondo, quasi frustrati dalla ovvietà della situazione. La regia di Crowley è classica, e mai sbagliata, ma se vorrebbe essere impeccabile, non lo è: è da ammiccamento all’Academy, se si può oggi coniare questa definizione per identificare uno stile ed un approccio precisi. Insomma, riguardare Carol di Todd Haynes, mettere vicini i due quadri, e trovare le differenze. Ci sorprenderemo. O nemmeno più di tanto.

Lascia un commento