Recensione su Bright Star

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“O ricordo lontano, fragile ultima stella della mia notte atroce, ritornerai mai più?” * / 30 Novembre 2011 in Bright Star

“Bright star” è caratterizzato, ed il titolo pare già una dichiarazione di intenti, da un uso sapientissimo delle trasparenze e della luminosità (e la Campion, sicura, non gioca, non sperimenta, ma va dritta per la sua strada); è questo dominio assoluto della luce (le scene fatte di ombre aspre si ricordano poco, poiché vengono subito scacciate e neutralizzate, nel film e nel ricordo dello spettatore, dalla tenera delicatezza di infinite macchie di colore) a stregare non solo gli occhi ma anche il cuore (perché “Bright star” è, paradossalmente, un film viscerale), attratto da un apparente annullamento del tempo (in una dimensione narrativa spesso quasi fiabesca).
C’è tantissima maestria nel modo in cui il bianco del sole o il velo di una tenda sottile gonfiata dal vento, vengono portati in scena (e molte sequenze, nella loro estatica quasi-immobilità, hanno la grazia luminosa di un quadro impressionista) ed esaltati; non ci mettono niente, loro, a dissolvere il mondo in una chiarezza quasi uniforme: e mentre gli abiti di Fanny (interpretata da una straordinaria Abbie Cornish) vanno scolorendosi (non troveremo più i colori sgargianti dell’inizio), o adattandosi, sempre più, ad una cornice naturale nella quale ella si integra e si perde, i due amanti paiono dissolversi nell’aria (lui, oscuro, nell’ombra, lei in una luce che l’accompagnerà fin quasi alla fine), esangui, entrambi spossati, straziati da una tensione impossibile da sostenere (basta vedere con quanta violenza esplode, infatti, al termine del film).
Fare poesia con le immagini si può (senza perdere poi molto della capacità evocativa che è l’anima più autentica della poesia).

* Cesare Pavese – “Tutto mi è morto intorno”

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