Fantasticherie horror / 31 Marzo 2019 in Border: Creature di confine

Presentato a Cannes 2018 nella sezione Un certain regard, dove è stato premiato per la miglior regia, 4 nomination agli European Film Award, dove ha vinto il premio per gli effetti visivi, e candidato agli Oscar 2019 per il miglior trucco, il film Border di Ali Abbasi è un racconto cinematografico ibrido decisamente interessante.
Il film è tratto da un racconto dello scrittore svedese John Ajvide Lindqvist (che ha partecipato anche alla sceneggiatura), diventato celebre con il romanzo d’esordio Lasciami entrare (2004), portato al cinema da Tomas Alfredson (2008) e Matt Reeves (2010). Le narrazioni di Lindqvist hanno sempre a che fare con il sovrannaturale e provano a dare nuovo smalto e offrire nuovi punti di vista su figure “mitologiche” come vampiri, fantasmi e creature del folklore in genere, insistendo spesso sulla condizione di emarginazione dei diversi. Gräns, il racconto che ha dato origine al film di Abbasi, non fa eccezione.

La protagonista, Tina (Eva Melander), è una persona di aspetto e modi che non passano inosservati. Sincera e d’animo buono, Tina è dotata dell’incredibile capacità di annusare le emozioni e lavora per la polizia svedese. Tante particolarità e un carattere schivo l’hanno resa un essere solitario che, con fatica, è riuscito a integrarsi a sufficienza in un mondo che tende a relegare lontano le eccezioni. Non a caso, Tina vive lontano dalla città, in mezzo a un bosco rigoglioso, umido e fecondo, un luogo che sembra rinfrancarla.
L’incontro con Vore (Eero Milonoff), una persona con un odore tanto particolare per le narici di Tina e fisicamente così simile a lei, cambia completamente la sua vita.

Border (e pure Gräns) significa confine, ma anche colui che sta sul confine. Tina e Vore sono esseri liminali che, per vari motivi, non rispettano le regole della biologia umana. Sembrano una cosa, ma sono un’altra.
Con meno leggerezza di Terry Pratchett o Neil Gaiman (penso agli gnomi de Il piccolo popolo dei grandi magazzini o alle divinità di American Gods), Lindqvist e Abbasi parlano di creature che, con il sopraggiungere dell’Illuminismo e della società moderna e razionale (?) sono state volutamente dimenticate. La magia, anche quella più terranea e oscura, non è più parte integrante della Vita. Le fate non danzano più alle sorgenti d’acqua, ai troll sono state tagliate le code e non corrono più per i boschi.

Del film di Abbasi, ho apprezzato la capacità di rendere efficacemente per immagini una storia di diversità, identità e accettazione che declina in forma contemporanea gli elementi tradizionali della fiaba nera europea. In particolare, mi sono piaciute molto le virate del racconto: il film parte come la cronaca della vita di un emarginato che, forse, ha finalmente trovato una persona pienamente affine a sé e, poi, diventa un originale fantasy, a tratti disturbante, niente affatto estetizzato, con venature apertamente horror (vedi Changeling) e una critica senza sconti a una società spaventosa oltre ogni fantasia che “non riesce neanche a proteggere i suoi cuccioli”.

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