Recensione su Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza)

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I centocinquantamila anni di esistenza / 10 Febbraio 2015 in Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza)

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

L’unicità della rappresentazione – a partire dal piano sequenza lungo un’intera pellicola – non coincide con l’effettiva messinscena in cui vi è una tangibile coesistenza di momenti, pensieri e riflessioni che sembrano quasi scollegarsi dalla trama ( forse più di una ) e vagare privi di ancoraggio immersi nella loro solitudine. Questo isolamento lega tra loro anche i personaggi, ognuno con le proprie crisi, paure frustrazioni, ma che calcano la scena per dare sostanza all’apoteosi del fallimento personale messo a tacere dal bisogno di riscatto.

Riggan Thompson è Birdman , l’uomo uccello. Michael Keaton è stato Batman , l’uomo pipistrello. Inutile sottolineare le copiose analogie tra le due personalità che hanno reso le intenzioni del regista ancora più d’effetto. Thompson e Keaton hanno raggiunto l’apice della loro carriera per merito di un supereroe che in qualche modo li ha ridotti a semplice declinazione dell’eroe stesso.

Durante la memorabile parata in mutande a Times Square, la folla riconosce Riggan, però non grida il suo nome ma quello di Birdman. Ancora una volta, il nome di quel dannato uomo uccello. E’ come se, malgrado la sua voglia di recidere i legami che lo hanno costretto ad immagine, quella di un poster la cui visione ora gli è insopportabile, di fatto, non si fosse mai tolto la maschera. E’ un uomo alla ricerca di se stesso, privo di identità o, forse, desideroso di ri-crearne una con la quale apparenza e sostanza possano coincidere: uno specchio che per la prima volta mostri il riflesso di ciò che è.

L’irrealizzabilità di questa aspirazione nasce dal fatto che la realtà intrisa di distorsioni, alterata dalla presenza di nuovi mezzi di comunicazione, porta l’individuo a perdersi in una commistione di mondi dove tutto è, e, nello stesso istante, non è. Ciò rende difficile la ricerca della verità e di potersi in qualche modo definire. La conclusione è miserabile poiché si riduce alla necessità che si debba appartenere al sistema per poter essere o che bisogna iscriversi su facebook, riempire una bacheca di irrilevanti opinioni per dire di esistere davvero.

Chi è Riggan? Un artista o una celebrità?
Ritornare alle origini dell’arte attraverso il teatro, mettendo in scena una datata opera letteraria , potrà davvero riscattarlo? Cos’è che egli cerca con smania quasi impaziente se non un consolante e, nel contempo, edificante consenso? L’approvazione degli altri è fondamentale e, che sia data dal pubblico pagante o dalla critica o dai suoi colleghi, poco importa. Ma tutto ciò è inutile perché il protagonista cerca sicurezza da un contorno umano che non stima e che in fondo gli è indifferente, poichè troppo preso dalle proprie turbe mentali. La massa è ignorante ed in parte è identificata nelle opinioni dell’onirica presenza che accompagnerà Riggan nel corso dell’intero film ( vuole un Birdman 4, un mucchio di effetti speciali così ben congeniati da far dimenticare l’importanza dei contenuti ); la critica etichetta, produce parole vuote che non esprimono emozioni. Si erge a giudice, innalza un’opera o la declassa in base a gusti personali. Spesso non ha neppure idea di cosa stia disapprovando. L’apice dell’inverosimile insensatezza viene raggiunto con l’articolo uscito appena dopo l’ultima esibizione, dal titolo “L’imprevedibile virtù dell’ignoranza “ che mi ha ricordato molto un aneddoto simile presente nel primo episodio della stagione Black Mirror “ ; ed infine i colleghi, che sono attori proprio come lui, bramosi di attenzioni ed altrettante rassicurazioni.

Far parte di un disegno, innalzarsi ad esseri speciali, è un bisogno che ci accomuna. Ognuno di noi vive questo aspetto in modo personale, ma per chi lavora nel mondo dello spettacolo, la purezza di questo concetto viene intaccata dall’ego e diventa ossessione, dando origine a uomini vanagloriosi ed egoisti, nei casi peggiori.
Fa riflettere la conversazione tra Riggan e la moglie. Egli confessa che sarebbe una grande disdetta se un aereo precipitasse con dentro lui, l’ignaro George Clooney e una massa urlante in preda al panico. Come possa essere frustrante immaginare che, a seguito della tragedia, sui tabloid il suo nome passerebbe in secondo piano vista la maggior fama di cui l’attore hollywoodiano gode. E’ un discorso che per i “non famosi” non ha senso. Nessuno di noi dedicherebbe un pensiero così inconsistente in una simile circostanza.

Mentre quasi tutte le personalità che ruotano attorno al protagonista cercano di proteggerlo, di consolare le sue altalenanti esitazioni con bugie delle volte un po’ “bastarde”, una fra tutte: Martin Scorsese che vuol fare provini per il cast di un film che non uscirà mai.

Il coraggio di gridare la verità, di smascherare le finte intenzioni, spetterà alla figlia Sam, interpretata da una convincente Emma Stone che, in uno dei dialoghi padre-figlia – a mio avviso tra i momenti più incisivi della pellicola- fa emergere tutte le contraddizioni e gli autoinganni di Thompson: l’arte come pretesto per la realizzazione personale, l’indifferenza degli altri e verso gli altri (legami affettivi compresi), il terrore di non essere nessuno. E’ una verità che ci risveglia, che fra crollare intere sovrastrutture che da sempre disperatamente continuiamo a costruirci. Non può essere diversamente: non contiamo nulla. Non siamo che il metaforico quadratino di carta igienica (difficile non prestare attenzione alla scelta del mezzo), i trattini allineati, i centocinquantamila anni di esistenza che ci ricordano inesorabilmente come il nostro ego e le nostre ossessioni siano del tutto insignificanti.

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