Birdman: il luna park infinito di Iñárritu / 6 Febbraio 2015 in Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza)
Benché la struttura narrativa paia discostarsi dai meccanismi ad incastri relazionali dei film più noti di Iñárritu, trattasi di sostanziale apparenza, perché anche qui gli intrecci e le iperboli sono quantomai presenti, parzialmente sublimate da un tono del racconto solo in apparenza giocoso.
Il regista messicano crea un luna park vorticante di volti e situazioni (emblematica la roboante scena della “parata” in mutande a Times Square) che, sfruttando le imposizioni dettate da implacabili piani sequenza e da un concetto che vagamente ricorda quello (praticamente ovvio) delle maschere platoniane (ciascun personaggio, in questo caso, rappresenta e e al contempo, qui, cela un topos, una filosofia di vita o una tecnica per sopravvivere ad essa), ricorda quello di Rumori fuori scena, eviscerando letteralmente ciò che si cela dietro le quinte di uno spettacolo e della vita privata dei personaggi coinvolti nella messinscena.
La realtà si interseca con una delle sue possibili rappresentazioni (quella scelta in fase di script) ed essa, a sua volta, si concentra su un’installazione teatrale (che sarà oggetto di analisi ed interpretazioni… come il film stesso, d’altronde) che è l’adattamento di un testo letterario: un insieme tendente all’infinito di condizioni fittizie, l’una sovrapposta ed incatenata all’altra. L’identità dei protagonisti si scinde su più piani, quello intimo e quello pubblico, quello desiderato e quello “formulato”, quello interpretato nella vita e quello interpretato sul palco di Broadway.
Rimane costante un tratto comune: la ricerca dell’affermazione dell’ego, in un’architettura ipertrofica e vertiginosa di appropriazioni indebite (vedi, l’intervista rilasciata da Shiner) e di alienazioni mentali.
L’atto del recitare, cioè mostrarsi sostanzialmente diversi da ciò che si è, si amplifica, qui, in maniera esponenziale. E, per quanto negato ma/o suggerito, Keaton (bravissimo) e la sua filmografia costituiscono il simulacro ideale (pardon, reale!) per rendere credibile l’identità multiscissa del protagonista.
Gran cast in eccellente spolvero (Edward Norton folle, Galifianakis calibratissima macchietta), vituosismi tecnici invasivi ma gradevoli, bella fotografia e, soprattutto, fantasia al potere.
E la batteria di Antonio Sanchez! Sincopata, vibrante, rumorosa ma non cacofonica. Peccato che, vista la presenza di brani non originali, la colonna sonora di questo film non abbia potuto concorrere agli Oscar, perché è una delle più interessanti ascoltate ultimamente.
Un film cerebralmente stimolante, vivo, brillante. Da vedere.
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