Assistete ad uno spettacolo di ombre cinesi messo in scena da diversi artisti; ognuno di loro modella le proprie mani e il proprio corpo a formare una figura che rappresenti qualcosa, che vi comunichi qualcosa. Rapiti, abbracciate con lo sguardo ognuno di loro lodandone la bravura e facendovi trasportare da ciascuno a “conoscere” un’angolo diverso del palco fino ad accorgervi che, riuniti tutti insieme al centro del palco, l’esercizio di ognuno, il contributo di ognuno è un segmento di un disegno più grande. L’immagine creata dall’unione delle ombre di tutti gli artisti richiama un pensiero e comunica un messaggio molto più grande, profondo ed interessante ed è allora che capite che grande spettacolo avete visto.
Riggan è un attore che in passato ha conosciuto la gloria della ribalta interpretando, in un film che ha avuto 2 seguiti, il supereroe che dà il nome alla pellicola ma che ora si trova praticamente disoccupato anche se non del tutto dimenticato. Per dare un nuovo slancio alla sua carriera si imbarca in un progetto tutto suo che consiste in una rivisitazione di un romanzo di Raymond Carver, “What We Talk About When We Talk About Love”, che scrive, dirige e interpreta insieme ad altri 3 attori. Sembrerebbe l’incipit per una commedia sulla magia del metateatro come ne abbiamo già viste a decine ma non è proprio così semplice; il film mette in campo diverse critiche a molti aspetti della vita quotidiana e del sistema cinematografico Hollywoodiano ma non risiede in questo il fulcro di un film che ci fa riflettere su noi stessi e la nostra società molto di più che sugli attori e sui film che vediamo ogni giorno al cinema.
Ogni personaggio del film, a modo suo, lotta per conoscere e capire il proprio ruolo nel mondo; ognuno di loro rifiuta l’etichetta che la società e la cultura generale vorrebbe affibbiargli. Lesley (Naomi Watts), l’attrice insicura che si sente intrappolata nel ruolo di ragazzina che prova a sfondare nel mondo del teatro senza mai sapere se ce l’ha fatta o no, il produttore Jake (Zach Galifianakis) che rivendica la sua importanza (“io sono quello che tiene a galla questo spettacolo” dice ad un certo punto); c’è l’attore bravo, Mike (Edward Norton), che sa di esserlo, presuntuoso e pretenzioso che in uno dei suoi momenti intimi dice: “quando sono sul palco non recito, sono mé stesso”, c’è la figlia del regista, Sam (Emma Stone), intrappolata nello stereotipo di ragazzina “poco di buono” con problemi di comportamento e droga; droga ed emozioni di cui abusa apposta per trovare la sua fuga e soprattutto c’è Riggan.
Lui è quello che tiene insieme e ci guida (letteralmente tramite i movimenti di camera e il montaggio usato con una bravura e tecnica sopraffina che ci danno quasi l’illusione che il film non abbia stacchi evidenti) attraverso la ragnatela di emozioni sue e dei suoi compagni di viaggio. Perchè sono tutti sulla stessa barca in balia della loro stessa fragilità e dubbi. Ma quali sono allora questi dubbi? L’esistenza. Che cos’è e cosa rappresenta nel mondo di oggi, cinematografico e reale? Nel momento in cui per me è vitale sapere di esistere di aver rappresentato qualcosa per qualcuno, di aver lasciato un segno del mio passaggio come faccio a sapere, ad essere sicuro di esistere per questo qualcuno? cos’è che davvero conta? cosa mi rende reale, vero, presente?
E’ una condanna ai film di Hollywood? Si questa e solo la spolverata di cioccolata sulla panna sotto la quale c’è un intero gelato di molti sapori. La condanna è per la società per la quale esisti solo se si parla di te su qualche blog, se ci sei su facebook, twitter o youtube dove il numero di visualizzazioni concretizza la tua esistenza, più ne hai più sei reale. Ma allo stesso tempo ti etichetta, ti categorizza; non sei più tu in quanto individuo, ma sei quello che hai rappresentato e lo sarai per sempre. Perfino nella scena in cui Riggan, chiuso fuori dal teatro scappa in mutande in mezzo alla folla, finalmente “messo a nudo” spoglio delle sue maschere viene additato sempre e solo come “guardate! Birdman!”; per il suo pubblico lui è sempre e solo quel personaggio (non si sono dimenticati di lui, ma lui non l’hanno mai conosciuto, conoscono solo il suo personaggio, lui in quanto Riggan non esiste). E’ una condanna che grida Mike al pubblico del teatro quando dice “smettetela di guardare il mondo attraverso lo schermo del vostro telefono e provate ad avere un’esperienza autentica” e che ribadisce Riggan parlando all’ex moglie quando le dice che avrebbe voluto non aver ripreso la nascita di sua figlia perchè così facendo quel momento se l’è perso, lui non c’era, è un ricordo che non sarà suo. E’ una condanna che dice la figlia al padre quando facendogli vedere le visualizzazioni ottenute dalla sua corsa nudo per strada gli dice “che ti piaccia o no, questo è il potere”. E’ una condanna che sussurra di continuo la voce di un Riggan passato a se stesso “smettila di cercare di essere originale, diverso e profondo, in una parola unico, lottando e torturandoti contro un sistema che tanto non ti stimerà per questo e torna ad essere quello che eri, torna tra le rassicuranti barriere di un clichè, superficiale e banale che il pubblico riconosce (capisce?), vuole e ama.
E a Riggan in questo naufragare nella barca con questi attori di cui condivide lo smarrimento, a volte, arrivano le voci di due personaggi fuori dal coro. Una è l’ex moglie che non fa parte di questo meccanismo, è esterna al gioco delle maschere e delle parti e gli lancia un monito, parlando dell’incrinato rapporto con la figlia, che però non arriva ad un uomo ormai smarrito “non devi tentare di essere un buon padre, ma solo esserle accanto, esserci per lei”, come a dire non fare la parte del padre (ancora un etichetta) ma si te stesso, esisti; l’altra è la critica cinematografica, Ms Dickinson, che vuole stroncare lo spettacolo di Riggan perchè per lei lui rappresenta la facezia dei personaggi famosi che in preda a crisi artistiche credono di ritrovare la benedizione attraverso il teatro, dissacrandolo. Gli dice dopo uno scambio durissimo “tu sei una celebrità, non un attore, siamo chiari su questo”; di nuovo, tu non esisti, sei solo famoso per la maschera che hai portato e che continui a portare.
E poi all’improvviso c’è il monologo di Macbeth urlato con rabbia in mezzo alla strada da uno squinternato che racchiude e ribadisce lo stesso messaggio:
“La vita è solo un’ombra che cammina,
un povero attore
che si dimena sopra un palcoscenico
per il tempo assegnato alla sua parte,
e poi di lui nessuno udrà più nulla:
è un racconto narrato da un idiota,
pieno di grida, strepiti, furori,
che non significa nulla! “
Bellissimo.
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