Recensione su Big Eyes

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Big Eyes
Regia:

2 Gennaio 2015

Tim Burton torna sui grandi schermi, e stavolta rispetto all’insieme delle sue opere fa un passo indietro, necessario ad inquadrare e ridimensionare anni di lavori che a loro volta, e inevitabilmente, si dividono in due categorie: grandi visioni penetrantemente dark, di contro a mere semi-parodie autocompiaciute. “Big eyes”, a questo proposito, ripropone la poetica burtoniana con la promessa di qualcosa di nuovo e stimolante: una svolta alla sua più che nota indole “goth” vagamente adolescenziale; un ulteriore biopic su una personalità nascosta dal tempo (come è accaduto anche con “Ed Wood”) e il racconto della più assurda frode artistica operata da Walter Keane, principalmente ai danni morali della moglie Margaret Ulbrich, pittrice tra gli anni ’50 e ’60.

I protagonisti caricaturali, e in particolare il personaggio di Margaret, sono esseri umani “mostruosi” che prendono il sopravvento sui mostri umanizzati a cui il caro Burton ci aveva abituati, e ricordano gli innumerevoli outsider partoriti proprio dall’estro del regista. Lo stacco rispetto all’immaginario stilistico di Burton risiede nell’esagerazione pastellosa di una fotografia curata da Bruno Delbonnel (già al fianco di Burton per “Dark shadows”), fresca e adatta non solo al contesto storico e sociale, ma anche a quello artistico e psicologico, opposto a ciò che i ritratti di Margaret suggeriscono e, in seguito, riveleranno. Perché, molto banalmente, gli “occhioni” sono lo specchio dell’anima, rivelatori di una realtà, come del resto lo è l’arte in sé. Uno script lineare ad opera della coppia Scott Alexander / Larry Karasxewski (collaboratori di Milos Forman per “Man on the moon” e “Larry Flint – Oltre lo scandalo), così come il profilo psico-emotivo dei suoi protagonisti, rappresentano la prova che Tim Burton ha finalmente accantonato (si spera a lungo termine) il mondo pseudo-disneyano, ormai logoro e sfruttato fino al midollo, per riscoprire una certa autorialità di sua invenzione.

Ovviamente “Big eyes” non costituisce una delle sue prove più mirabolanti, ma un ritorno alle origini più essenziali del suo cinema, che gli permette di rispolverare uno stile registico pulito e meno canzonatorio nei riguardi della materia narrativa, laddove di solito era una produzione strabordante a prendere il sopravvento. Buona la scelta di affidare i “ritratti” dei pittori ad Amy Adams e Christoph Waltz: la prima conferisce a Margaret una vena drammatica addirittura deliziosa, moderata e cristallina, mentre il secondo conferma il suo estro umoristico e brillante, quasi a voler ricordare quell’Hans Landa che, in “Bastardi senza gloria”, gli è valso la fama mondiale.

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