Quest’ ultimo film di Tim Burton lascia in un primo tempo stupiti e poi meravigliati, si, ci si meraviglia di come questo autore visionario ed estremamente elegante riesca in un modo o nell’altro a risultare sempre personale e cinematografico come pochi altri contemporanei. In “Big Eyes” non ci sono atmosfere gotiche, mancano gli spiritelli porcelli, non vi è traccia di quel “dark” che tanto manda in brodo di giuggiole i fans più reazionari del regista, eppure, nonostante sia più nascosto e rarefatto, c’è molto Tim Burton, nelle inquadrature, nell’utilizzo della fotografia, nella direzione degli attori e soprattutto c’è quel Tim Burton appassionato narratore di una storia realmente accaduta, con personaggi veri ma ben romanzati, come nel suo più illustre e geniale “Ed Wood”. Già, perchè questo film ha molto a che vedere con quell’ “Ed Wood” che tanto fece discutere, si riallaccia automaticamente ad un discorso estemporaneo che il regista aveva instaurato con quella breve parentesi, distaccandosi dal suo stile più tipico, andando ad omaggiare un’altra icona ‘pop’ del secolo scorso, Margaret Ulbrich in Keane, un’artista popolare protagonista di una rocambolesca vicenda fatta di intrghi, raggiri e falsità che tanto destò scalpore nei colorati anni sessanta. “Big Eyes” dunque altro non è se non un omaggio personalissimo ad un’ artista che anticipò un certo tipo di ‘pop art’, un’opera sull’arte, una dedica all’ispirazione sensibile e una condanna all’industria, alla nascita, se possibile, di una certa mercificazione dell’arte, quella mercificazione che inevitabilmente svilisce l’autenticità, ma arricchisce il conto in banca e annebbia le coscienze. Si, perchè se da un lato c’è la bella Margaret con i suoi disegni dei poveri trovatelli dai grandi occhi, dall’altra c’è suo marito Walter Keane, pseudo artista con un millantato passato in quel di Parigi ed abile piazzista imbonitore, il quale captato il potenziale della moglie, sposata in quattro e quattr’otto dopo una breve frequentazione, ne ruberà l’identità, spacciando i quadri come suoi, con il consenso passivo della consorte, dando così vita ad una frode ottimamente collaudata. I due prendono coscienza del potenziale delle opere, iniziano ad arricchirsi, a fare mostre, a riempire saloni, sempre con il dissenso degli artisti vecchio stampo e dei critici più sofisticati, ma con l’appoggio unanime della gente, affascinata dalla diretta immediatezza di quei trovatelli dagli occhioni enormi, tristi, pieni di desiderio e di calore, che tanto fanno breccia nella cultura pop di quegli anni, tutte caratteristiche insite nell’animo puro della loro reale autrice e madre.
Ed è qui che il film cambia rotta, trascinandsoi in una repentina discesa negli inferi del merchandising, con lui sempre più preso a fare soldi, vendendo tutto il vendibile, ormai delirante e megalomane e lei sempre più repressa, ridotta ad ornamento all’ombra delle sue creature, fino all’inevitabile rottura, all’ implosione della coppia, tanto unita prima dall’arte e poi divisa dalla stessa, cioè dalla vita, si, perchè la vita è arte. Il buon Burton mette quindi in scena il tandem di due opposti che in principio si attraggono e poi si respingono e dividono, da una parte c’è Margaret, l’esaltazione dell’arte più pura, dell’ispirazione dettata dall’autenticità, dall’altra Walter, la grettezza del commercio dell’arte, vile, ma affascinante e redditizio, due circostanze destinate inevitabilmente ad unirsi e poi a collidere sfaldandosi, proprio come i due protagonisti.
“Big Eyes” è un film dipinto, colorato, un film pop, molto più ispirato dell’ultimo Burton, forse un pò troppo manieristico, ma non un film buonista, tutt’altro, è un film cattivo a volte cinico e perfido, il quale non ha probabilmente la stessa potenza del romantico bianco e nero di “Ed Wood” ma dal quale ruba la stessa voglia di omaggiare un’artista autentica, vera, non geniale, ma a suo modo poetica e vivace. Ottima e funzionale la bella fotrografia di Bruno Delbonnel e sempre azzeccata la regia del vecchio Tim Burton, che sottrae al suo repertorio molti vezzi stilsitici per mettersi al servizio della narrazione e dell’incantevole coppia di protagonisti, Amy Adams e Christoph Waltz, per un lavoro così diverso dal solito, eppure altrettanto personale, senza doverlo bollare a tutti i costi con la noiosa etichetta di “non burtoniano”, come se un regista dovesse restare imprigionato ad ogni costo nel suo stesso marchio, considerazione che ci porta a riflettere su un particolare, il suo film più bello, e perchè no sincero, è proprio quel tanto personale “Ed Wood”. Beh, è proprio una bellezza avere un Tim Burton….
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