Recensione su Un'altra donna

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Poiché qui non c’è nessun posto che non ti veda / devi cambiare la tua vita. / 28 Settembre 2016 in Un'altra donna

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Una donna di cinquant’anni, al pieno successo della carriera professionale, accidentalmente ascolta una seduta psichiatrica che si tiene nella stanza accanto alla sua. La sua vita ne è sconvolta, poiché tramite questa seduta – e le seguenti della stessa paziente – rimette in dubbio tutte le granitiche certezze su cui ha costruito l’esistenza.

Quanto l’individuo costruisce la sua identità, e per di più, occulta questo processo a se stesso? La protagonista Marion vive nella menzognera vita felice che si è costruita, credendosi amata dal marito, dalla figlioccia, dal padre ancora vivo, dalla vecchia amica di infanzia. Tutta questa non è che una realtà da lei immaginata, una sua rappresentazione; la sua freddezza l’ha astratta dal mondo-della-vita, e il mondo, in risposta, l’ha esclusa. Sì, il padre l’ammira, come anche la figlioccia, ma quanto veramente la vogliono come essere umano, piuttosto che come erudito cervello?
A disilluderla inizialmente ci pensa l’amica di infanzia, con cui non si è “persa occasionalmente di vista”, come la protagonista crede ciecamente; a forzare gli eventi perché questo distacco accadesse è stata l’amica stessa, che lo conferma in un casuale incontro con Marion. L’amica si sentiva intimidita dall’erudizione e dalla cultura della promettente allieva di filosofia, e per questo se ne è distaccata – come molti altri.

Visto dall’altro lato della medaglia, dal lato di Marion, si assiste alla caduta della maschera pirandelliana in cui la protagonista era oppressa da tutti: dal padre – che prevede per la figlia una rosea carriera intellettuale, dal marito attuale – che esclude una dimensione di sensualità alla moglie, che “non è il tipo per certe cose” , dalla figlioccia, dal fratello, dalla cognata, che la vedono come supremo giudice, esecutrice di una morale più alta ed ultraterrena. Una maschera che alla fine la stessa Marion ha deciso di indossare, anteponendo la carriera – ed una vita “impersonale” – ad ogni scelta emotiva (emblematicamente, in un ricordo, Marion regala al suo primo marito una maschera, e alla fine del ricordo è la protagonista stessa ad indossare la maschera). A causa di questo ruolo imposto – ed autoimposto – la protagonista sceglie di sposare il suo secondo marito, piuttosto che l’amico di lui che le si è proposto, e che lei ama. Caduta la maschera Marion tenterà alla fine del film di riallacciare i rapporti perduti col fratello, e di non tralasciare la figlioccia.

La scena in cui Marion sogna, accompagnata da Gymnopedie n. 1, è tanto toccante che non va commentata. Allen comunque gioca sporco, perché con quel pezzo musicale probabilmente mi commuoverei anche vedendo una partita di calcio.

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