Un passo avanti e uno indietro / 17 Gennaio 2019 in Ancora un giorno

Un passo indietro rispetto a “Valzer con Bachir”. I confronti sono fastidiosi, lo so, ma in questo caso parliamo di film sperimentali, e la discussione sulle tecniche di cinema e di animazione non può prescindere dal lavoro e dagli esperimenti del resto della comunità di film-maker. La tecnica del rotoscopio sulla motion capture è limitante per l’animazione: ogni film che vi si avventuri deve portare un contributo se non vuole scomparire nel solco tracciato da altri.”Ancora un giorno” mi dà invece l’impressione che finirà presto nel dimenticatoio, e monta l’amarezza per un’occasione sprecata.

Il film ricostruisce la cronaca dell’indipendenza angolana come riportata dall’inviato di guerra polacco Ryszard Kapuściński, unico giornalista occidentale presente sul campo, che l’ha poi raccontata in uno dei suoi libri dal titolo “Ancora un giorno” (pubblicato da Feltrinelli in Italia, insieme a molti altri suoi libri). Le dinamiche di quei giorni confusi sono rese con sufficiente chiarezza (probabilmente anche semplificando, ma è inevitabile) ma la scelta di dare voce a pochi, selezionati personaggi sfocia subito in una patina eroistica malcelata che può minare il coinvolgimento emotivo degli spettatori (sicuramente s’è giocato il mio).

Disarmante la scelta di affidare l’interpretazione, nelle ricostruzioni animate (ovvero gran parte del film), a attori che recitano (male) in lingua inglese, quando la storia riguarda personaggi di tutt’altra nazionalità (polacca, portoghese e angolana), e che alla nazionalità fanno continuamente riferimento nei loro dialoghi. Una storia di tale respiro internazionale (come io ne cerco continuamente e le aspetto come oro colato) andava interpretato a tutti i costi nelle lingue d’origine dei personaggi.

Sono troppe le tare di questa produzione per potersene entusiasmare, ma col distacco non emergono soltanto i difetti. In maniera simile a “Valzer con Bachir” anche questa storia è intermezzata da visualizzazioni surreali della violenza della guerra (civile e non, fredda e non) e queste mostrano una maggiore padronanza dell’immagine, del linguaggio e dei mezzi digitali. Felice anche la scelta di affidare molti “spiegoni” alle interviste ai testimoni oculari sopravvissuti, paradossalmente più distaccati, precisi e ammalianti della ricostruzione drammaturgica, che fa un migliore servizio alla riflessione sull’etica giornalistica (il mestiere del protagonista) che non alla memoria di caduti e reduci.

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