Recensione su Amarcord

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21 Settembre 2012

Il termine amarcord è entrato nel vocabolario della lingua italiana, proprio grazie a questo film, per indicare una rimembranza nostalgica, quella che allontana per un attimo la disillusione di chi deve fare i conti con l’inesorabile scorrere del tempo.
È quello che ha fatto Fellini in questo film, regalando scorci della sua giovinezza trascorsa al “borgo” di Rimini, nei primi anni ’30.
Lo scorrere delle stagioni come metafora, di solito fin troppo abusata, ma che il genio riminese adatta perfettamente al suo intreccio: il film inizia con le “manine” che annunciano la primavera e il faló della vecchia, la “fugaraza”, per celebrare la fine dell’inverno. Una primavera che risveglia gli istinti lussuriosi e le fantasie degli adolescenti, scatenate da figure mitiche, ma tangibilissime, come la Gradisca, la ninfomane Volpina o la procace tabaccaia (quest’ultima protagonista di una scena che ai tempi fece scandalo).
L’estate della leggerezza di vivere, l’autunno del disincanto, l’inverno della morte e del dolore. Per tornare, ancora una volta, alla primavera delle “manine”. Ma un anno è trascorso e il tempo segna le esistenze ineluttabilmente, con avvenimenti fatalistici che aiutano a crescere e ad affrontare la vita (la Gradisca, icona sexy per i giovani del Borgo, si sposa e va a vivere in un’altra città).
Il film è dunque costituito da una serie di ricordi, di avvenimenti piú o meno eclatanti agli occhi di un giovane di provincia, fortemente evidenziati con stacchi netti da una scena all’altra.
Scene memorabili che rendono lo spettatore soggetto attivo del ricordo: la scuola, con le fantastiche scene delle interrogazioni; la parata fascista per l’anniversario della fondazione di Roma, che i giovani vivono con innocenza (il tema del fascismo è anch’esso centrale in Amarcord; importante è anche la scena dell’interrogatorio del padre di Titta, costretto a tracannare olio di ricino); la confessione con il parrocco; l’uscita in mare per vedere il passaggio del Transatlantico Rex, con gli entusiasmi che suscita; la camminata dantesca nella nebbia autunnale; la nevicata record, la battaglia a palle di neve e il pavone che fugge e vola sulla fontana innevata (in Fellini tutto è metafora, lasciata spesso alla libera interpretazione dello spettatore, come l’onnipresente motocicletta che scorazza nei momenti piú impensabili, ma con chirurgica cadenza, tra le vie del Borgo).
Una menzione particolare merita la parte dedicata allo zio matto di Titta, uno strepitoso Ciccio Ingrassia (che peró viene doppiato). La salita sull’albero, l’invocazione “voglio una donna!”, altra scena che segna profondamente.
In questo capolavoro onirico Fellini ha raggiunto l’obiettivo impensabile di far vivere a tutti la sua adolescenza, renderla propria di ciascuno spettatore. L’amarcord è il nostro amarcord. Il ricordo nostalgico è nostro, lo viviamo in prima persona, lo sentiamo nostro: in ció il regista romagnolo ha raggiunto un risultato strepitoso.
Le musiche eccezionali di Rota e l’uso di tecniche cinematografiche che si adattano perfettamente allo spirito delle vicende da raccontare (basti pensare all’anticlimax che chiude il film, nella scena del matrimonio della Gradisca), completano quello che è a tutti gli effetti uno dei film italiani piú belli di sempre.

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