Amarcord

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Amarcord

Ricordi d'infanzia e di gioventù si mescolano alle visioni oniriche del regista riminese.
[Fonte immagine: zdf.kultur, screenshot (08.04.2012), via Wikimedia Commons. Licenza: pubblico dominio.

Stefania ha scritto questa trama

Titolo Originale: Amarcord
Attori principali: Bruno Zanin, Armando Brancia, Pupella Maggio, Giuseppe Ianigro, Nando Orfei, Stefano Proietti, Magali Noël, Gianfranco Marrocco, Antonino Faà di Bruno, Donatella Gambini, Fernando De Felice, Bruno Lenzi, Bruno Scagnetti, Alvaro Vitali, Ciccio Ingrassia, Francesco Vona, Aristide Caporale, Luigi Rossi, Gennaro Ombra, Domenico Pertica, Ferruccio Brembilla, Marcella Di Falco, Antonio Spaccatini, Maria Antonietta Beluzzi, Josiane Tanzilli, Gianfilippo Carcano, Mauro Misul, Ferdinando Villella, Francesco Maselli, Catharina Dahlin, Salvatore Porcaro, Antonio Marcolini, Mario Pascucci, Mostra tutti

Regia: Federico Fellini
Sceneggiatura/Autore: Federico Fellini, Tonino Guerra
Colonna sonora: Nino Rota
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Costumi: Danilo Donati
Produttore: Franco Cristaldi
Produzione: Italia
Genere: Drammatico, Commedia
Durata: 123 minuti

Dove vedere in streaming Amarcord

Fellini, tanto amore / 15 Settembre 2015 in Amarcord

Sono uscito dal cinema con la pelle d’oca. Emozioni a fior di pelle, seduzione totale; sarà anche un richiamo atavico del mio sangue in parte emiliano (sì lo so che romagnolo è altra cosa, ma ciò che è ancestrale non guarda al campanile), sta di fatto che questo è il mio Fellini preferito.
Vi spiego perchè: in primo luogo, la gioia di averlo visto in una sala cinematografica grazie al restauro della Cineteca di Bologna (lunga vita!). Poi, il trionfo del colore, che è perfettamente connaturato alla vitalità della pellicola, catturato dalla fantasmagorica fotografia di Rotunno, oggi signore di 92 anni che ha pregiato della sua supervisione le operazioni di restauro.
La vis comica di questo film, con la sua galleria di caratteristi irresistibili; penso alla sequenza degli insegnanti, pura essenza del miglior cabaret all’italiana. Il gusto dei sensi, dalla tavola al letto, che Fellini ha sempre celebrato liberamente; Roger Ebert, tra i primi ammiratori di Fellini, per strappargli di dosso la fastidiosa etichetta di “cinema d’autore” affermò provocatoriamente che il maestro riminese era più vicino a Russ Meyer che a Ingmar Bergman.
La musica di Nino Rota. Sì, la musica più che “le musiche”, perchè in questo film viene riproposta all’infinito la celeberrima nenia ipnotizzante, vagamente orientaleggiante, malinconica, in tutte le salse e in diverse varianti. E non vorresti ascoltare altro.
L’atmosfera paesana ricreata magicamente, in un gioco di parodia e di fantasia, con gli accenti sui grandi falò equinoziali, le contrade di paese dove un avvocato cicerone (bellissimo volto cornacchiesco di Luigi Rossi) prova a raccontarci una storia ma viene continuamente spernacchiato da qualcuno (Fellini stesso). La poesia di una processione di lampare in mare aperto per salutare il transatlantico, gigantesco e luminoso come un mostro marino che emerge dal buio notturno. O di un casolare nei campi tra il frinire delle cicale dove un matto sull’albero grida “Voio una doooonnaa!” (eccezionale Ciccio Ingrassia, disconosciuto grande artista del nostro cinema), una nebbia avvolgente come la morte, la neve che chiama improvvisamente tutti fuori dal cinema dove si stava proiettando un film con Gary Cooper. Un film segnato dalle stagioni, con la medesima semplicità della vita di borgo. Si ride e si piange, si ama e si muore.
Aggiungo in coda pure che Woody Allen trasse ispirazione da questo film per il suo ‘Radio Days’, che a tutt’oggi resiste saldamente sulla vetta dei miei film preferiti in assoluto. Sì lo so sono un nostalgico… Che ci posso far?

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“a m’arcord”, io mi ricordo / 27 Gennaio 2013 in Amarcord

Un affresco totale della realtà provinciale della Romagna, totale si, ma non completo.
In questo affresco mancano se non stilizzati e metaforicizzati i riferimenti ad un
moderno che esula dalla realtà propria di quel mondo,quasi richiami a quelli che sarebbero stati gli incredibili cambiamenti venturi.
narra un sistema e dinamiche di vivere fino ad allora ben strutturati,funzionali,nobili seppur rurali e carichi di un significato che necessita di una descrizione speculare per essere compreso
il merito e la bellezza principale del film sta appunto nell’aver esposto in modo chiaro,didascalico e scevro da qualsiasi analisi intellettuale,in modalità quasi passiva ed etnografica,quelli che sono gli aspetti più intimi e significativi di un mondo ancora vivo sotto la nostra pelle eppure così diverso dalla modernità,un retroterra comune, forse ormai lontano, ma del quale anche chi è estraneo può facilmente capire lo spessore ;
il forte legame a tale corpus di tradizioni che fà da base alla nostra evoluzione sociale è innegabile e a tratti commovente
grazie a questa opera lo spettatore non solo apprende quelle storie ma vi si immedesima emozionalmente,umanamente fino a farle proprie.
Vi è un sorta di nostalgia intrinseca e patetica che accentua il peso sentimentale degli argomenti trattati videnziandone il carattere autobiografico, in quello che altrimenti,per tutte le altre varianti potrebbe essere considerato un vero e proprio resoconto storico.
I personaggi , sono Personaggi non maschere;
in perfetta assonanza con lo stile neorealista, sono, tappe della mente,per cui ciascun uomo passa attraverso gli altri per scoprire un “sé” onirico e allo stesso tempo cosciente dell’universo che abita
quasi tutte queste tappe hanno una forte carica sessuale come la tabaccaia, la gradisca, la volpina, persino la bella figura patetica dello zio Teo, esemplari di un mondo nel cui tutto passa per il sesso,come solo quello di una adolescente può essere
infine la derisione di un regime astruso, i cui ideali non coincidono minimamente con quelle che sono le vocazioni dell’popolo, descritto come ridicolo,vanaglorioso, impacciato, provinciale e stupidamente violento è l’esatta antitesi di quella che voleva essere la realtà fascista, che qui si trova quasi escluso e permane solo per via di un imposizione, come un corpo estraneo che quella cultura rigetta

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21 Settembre 2012 in Amarcord

Il termine amarcord è entrato nel vocabolario della lingua italiana, proprio grazie a questo film, per indicare una rimembranza nostalgica, quella che allontana per un attimo la disillusione di chi deve fare i conti con l’inesorabile scorrere del tempo.
È quello che ha fatto Fellini in questo film, regalando scorci della sua giovinezza trascorsa al “borgo” di Rimini, nei primi anni ’30.
Lo scorrere delle stagioni come metafora, di solito fin troppo abusata, ma che il genio riminese adatta perfettamente al suo intreccio: il film inizia con le “manine” che annunciano la primavera e il faló della vecchia, la “fugaraza”, per celebrare la fine dell’inverno. Una primavera che risveglia gli istinti lussuriosi e le fantasie degli adolescenti, scatenate da figure mitiche, ma tangibilissime, come la Gradisca, la ninfomane Volpina o la procace tabaccaia (quest’ultima protagonista di una scena che ai tempi fece scandalo).
L’estate della leggerezza di vivere, l’autunno del disincanto, l’inverno della morte e del dolore. Per tornare, ancora una volta, alla primavera delle “manine”. Ma un anno è trascorso e il tempo segna le esistenze ineluttabilmente, con avvenimenti fatalistici che aiutano a crescere e ad affrontare la vita (la Gradisca, icona sexy per i giovani del Borgo, si sposa e va a vivere in un’altra città).
Il film è dunque costituito da una serie di ricordi, di avvenimenti piú o meno eclatanti agli occhi di un giovane di provincia, fortemente evidenziati con stacchi netti da una scena all’altra.
Scene memorabili che rendono lo spettatore soggetto attivo del ricordo: la scuola, con le fantastiche scene delle interrogazioni; la parata fascista per l’anniversario della fondazione di Roma, che i giovani vivono con innocenza (il tema del fascismo è anch’esso centrale in Amarcord; importante è anche la scena dell’interrogatorio del padre di Titta, costretto a tracannare olio di ricino); la confessione con il parrocco; l’uscita in mare per vedere il passaggio del Transatlantico Rex, con gli entusiasmi che suscita; la camminata dantesca nella nebbia autunnale; la nevicata record, la battaglia a palle di neve e il pavone che fugge e vola sulla fontana innevata (in Fellini tutto è metafora, lasciata spesso alla libera interpretazione dello spettatore, come l’onnipresente motocicletta che scorazza nei momenti piú impensabili, ma con chirurgica cadenza, tra le vie del Borgo).
Una menzione particolare merita la parte dedicata allo zio matto di Titta, uno strepitoso Ciccio Ingrassia (che peró viene doppiato). La salita sull’albero, l’invocazione “voglio una donna!”, altra scena che segna profondamente.
In questo capolavoro onirico Fellini ha raggiunto l’obiettivo impensabile di far vivere a tutti la sua adolescenza, renderla propria di ciascuno spettatore. L’amarcord è il nostro amarcord. Il ricordo nostalgico è nostro, lo viviamo in prima persona, lo sentiamo nostro: in ció il regista romagnolo ha raggiunto un risultato strepitoso.
Le musiche eccezionali di Rota e l’uso di tecniche cinematografiche che si adattano perfettamente allo spirito delle vicende da raccontare (basti pensare all’anticlimax che chiude il film, nella scena del matrimonio della Gradisca), completano quello che è a tutti gli effetti uno dei film italiani piú belli di sempre.

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