Tra History Channel e DMAX / 2 Ottobre 2014 in Addio zio Tom

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Penultimo lavoro di Prosperi e Jacopetti, si distingue dai precedenti per l’uso limitato di materiale documentaristico e di repertorio. Questo si riferisce per lo più a manifestazioni e a fatti di cronaca ascrivibili al nazionalismo nero che imperversò negli Stati Uniti negli anni Sessanta e Settanta. Il tutto fa da introduzione al film vero e
proprio: un reportage che i due registi compiono per noi nel sud degli Stati Uniti direttamente dal XIX secolo! Altra soluzione che si discosta dal “mondo movie” classico è il ruolo assegnato alla voce narrante che, pur non apparendo mai, si trova ad interagire con gli abitanti della tenuta di cui è ospite. Una scelta che regala qualche sorriso, come quando durante una cena i nostri reporter provenienti dal futuro vengono accolti dalla padrona e dai suoi astanti, diveriti dallo scandalo destato nei due ospiti dall’istituto della schiavitù, ma che raggiunge anche momenti grotteschi, come quando il narratore riceve avances da una schiava. Il tutto contribuisce a ridurre al minimo la distanza tra lo spettatore e l’azione, la cui estrema crudezza in ogni caso basta e avanza a tenere viva l’attenzione.
La commistione tra finzione e realtà storica prosegue poi inserendo alcuni personaggi realmente esistiti, come il senatore John Randolph di Roanoke, ripreso a declamare quelle che furono effettivamente parole sue: “Sono un aristocratico. Amo la libertà, ma non credo nell’uguaglianza”. Frasi ad effetto come queste fanno il paio con le violentissime invettive di attivisti neri come Amiri Baraka ed Eldridge Cleaver inserite in apertura, e con la scena finale, in cui viene evocata la figura dello schiavo Nat Turner e della strage di bianchi che scaturì dalla rivolta da lui guidata nel 1831.
Si gioca molto sui fantasmi del passato, sulle paure più reconditre dell’America bianca e cristiana, arrivando in un certo senso a giustificare con la legittimità del risentimento l’odio razziale e le derive violente delle Black Panthers e dei gruppi affini attivi in quegli anni. Alla potenza del messaggio si aggiunge poi quella delle immagini, tratto che accomuna Addio Zio Tom ai più celebri Mondo cane o Africa addio, dei quali condivide un certo sensazionalismo e gusto morboso, ma che riesce anche a superare in quanto a crudezza (vedasi la “fabbrica di negri”).
Proprio le controversie legate al messaggio e alla natura cruenta delle situazioni rappresentate sono valse ai due registi accuse di razzismo da tutti gli schieramenti. Le accuse di incintamento all’odio da una parte e di deumanizzazione degli schiavi dall’altra si sono riflesse nei problemi incontrati in fase di produzione e distribuzione.
Se si esclude qualche scena girata nei pressi di New Orleans o nel Mississippi, sufficienti comunque a mandare in escandescenza le sezioni locali del Ku Klux Klan,
gran parte del film è stato girato ad Haiti. Stando ai racconti del produttore Giampaolo Lomi, numerosi paesi rifiutarono di ospitare le riprese che tra l’altro durarono 18 mesi. Solo l’allora presidente haitiano François “Papa Doc” Duvalier accettò la proposta, offrendosi di fornire auto ufficiali e accogliendo personalmente la troupe. Una troupe composta sì e no da sette persone, costrette all’occorrenza a riciclarsi come attori e che si trovarono a dirigere scene di massa con più 1000 comparse.
Tutti aneddoti che non fanno altro che alimentare un alone di leggenda attorno al film.

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