Recensione su A.C.A.B.: All Cops Are Bastards

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Il cinema che vogliamo / 17 Maggio 2013 in A.C.A.B.: All Cops Are Bastards

Cobra, Negro, Mazinga. Diretto da Stefano Sollima, ACAB è la storia di questi tre celerini. Un mezzo pugno nello stomaco per quello che racconta ma una boccata d’aria, uno spiraglio di luce per il cinema italiano.

Da una parte, infatti, ci troviamo di fronte a un film dove la macchina da presa esce per le strade e non si limita a vagare per le ormai famigerate “due stanze e cucina”. Dall’altra, un film che fa a meno di quella finta autorialità ormai tanto, troppo in voga per ripartire, invece, da quel cinema che viene detto “di genere” e in cui Sollima esprime se stesso meglio di tanti cosiddetti autori.

ACAB è un film che torna a raccontare la realtà: una realtà che non è fatta di personaggi chiusi in casa a struggersi su ciò che gira attorno al proprio ombelico, ma di personaggi (interpretati alla grande da Favino, Nigro e Giallini) che devono, per forza di cose, uscire, confrontarsi e scontrarsi con un mondo che, da una parte e dall’altra, li umilia, li odia, li calpesta.

Perché loro sono celerini, guardie, servi. Dalla vicenda della scuola Diaz (“la cazz**e più grande della nostra vita”, la definisce Mazinga), alle morti dell’agente Raciti, del tifoso Gabriele Sandri e di Giovanna Reggiani, sono i primi a subire sulla propria pelle le conseguenze, ritrovandosi spesso ad essere vittime del loro stesso cameratismo, pure così necessario (“Ci sono solo i tuoi fratelli”, dice Cobra sotto processo), tra eccessi nazionalistici e pressioni violente che possono sfociare solo in altra violenza.

E poi, la mitologia del celerino. Fatta di simboli veri e propri come gli scudi antisommossa, i caschi, i manganelli. Tutti elementi cui Sollima dedica spazio nei titoli di testa, sulle note di Seven Nation Army, per dare il via a una narrazione rarefatta ma di grande forza drammatica.

Sollima mette in scena figure a tutto tondo, ne comprende i disagi, spiega la violenza senza mai giustificarla. Un film diretto, d’impatto, dove diventa importante persino l’uso dell’inflessione romanesca, libera dalla connotazione comica e lingua invece di chi deve affrontare la realtà a muso duro.

Se tutto questo possa essere un tassello su cui ricostruire, o solo un lampo nel buio, questo ancora non lo sappiamo né possiamo dirlo. Noi speriamo che il cinema nostrano possa ripartire da qui.

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