Esperienza sfiancante / 16 Ottobre 2018 in A Quiet Passion

Rappresentare cinematograficamente la vita di una poetessa reclusa, la cui vita interiore è stata incomparabilmente più ricca di eventi di quella esteriore, è un compito improbo. Non è un caso che il film di Terence Davies assuma un impianto teatrale, con la scena quasi esclusivamente limitata alla casa e al giardino della famiglia Dickinson e con dialoghi che indulgono a una certa concettosità. La cosa regge finché restiamo alla giovinezza di Emily, riuscendo tra l’altro a rendere bene quel tipo di complicità tra fratelli che è spesso, come qui, una fucina di originalità. La levità di questa prima parte cede però il posto a un umore progressivamente più cupo, con un certo compiaciuto indugiare sulle scene di sofferenza e di morte, e – cosa peggiore – con una certa trivialità: ma Emily non fu mai testimone degli amplessi clandestini del fratello con Mabel Loomis Todd, che probabilmente non la incontrò mai di persona (salvo poi divenire la curatrice postuma – e disinvolta – delle sue poesie).
Un’altra libertà che Davies si prende è il risalto dato a Vryling Buffum, che nella realtà era più amica della sorella Vinnie che di Emily, mentre viene incomprensibilmente ridimensionato il rapporto – quello sì fondamentale – con la cognata Susan Gilbert. La ricerca inoltre di una poeticità esasperata – ehi, è la vita di un poeta in fondo, avrà forse pensato – porta Davies a saccheggiare materiali alquanto eterogenei: l’espressione «Where there is nothing there is God» è felicissima, ma non è della Dickinson, anche se nel film la pronuncia lei; è di William Butler Yeats.
Moltiplicato per due ore di durata, tutto ciò si traduce in un’esperienza sfiancante. Le poesie recitate in voice over durante il film non alleviano molto l’ordalia: la lirica della Dickinson è fatta più per essere letta e riletta che per essere ascoltata.

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