La russa vince / 7 Dicembre 2015 in Perfect Day

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

In dei generici Balcani, fatti di orizzonti e boscose colline attraversate da strade che sembrano spaghetti lanciati per aria da uno scolapasta e lasciati cascare random, c’è la guerra. Soit, è appena finita, nel 1995, e una strampalata squadra di operatori umanitari cerca di estrarre il cadavere di un fucking fatso da pozzo, dove è stato gettato per contaminare l’acqua. Sono un interprete, poi Mambrù, che è il capo e contingentemente anche Benicio del Toro con le sue espressioni da Che ma vestito come l’omino del tonno riomare, una pischella francese appena arrivata che non sa un ca**o e B, che è Tim Robbins ed è un cazzaro. Intorno solo donne, vecchi, mucche e bambini, gli uomini o sono morti o prigionieri o boh; e rovine, ah cara signora, avevamo le meglio rovine, nel ‘95, case bruciate e sforacchiate. Loro sono assurdi e assortiti, assurda e assopita è la guerra intorno, che come una mina non mai sai se possa riesplodere. Vicende personali, B che non ha una vita all’infuori dell’aiutare i rifugiati di guerra (parassitismo deforme?), Mambrù che se le scopava tutte ma vuol smettere e casa su mettere, incrociano le piste con un bambino che non si sa bene come parla inglese – con tutti gli altri hanno bisogno dell’interprete. E lo portano a prendere, la corda e un pallone. E scoprono i morti, c’è sofferenza tutto intorno ma dagli il pallone e gli impiccati non farglieli vedere. Perché poi me lo immagino così, ed è spaventoso ed è là fuori, si finisce a distorcere la normalità e inseguire un pallone e fucking fatso, ci deve essere un modo di tirarti fuori di lì. La morale è che alla fine si procede, che tanto un’altra guerra o emergenza dove accorrere, qualcosa da far fare ai B sparpagliati si trova sempre.

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