Recensione su A Classic Horror Story

/ 20216.278 voti

Furba e riuscita operazione di metacinema / 15 Luglio 2021 in A Classic Horror Story

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

A Classic Horror Story è una furbissima e, secondo me, riuscita operazione metacinematografica che, nel volutamente affollato tessuto di citazioni di genere horror, inserisce con grande calcolo (di Netflix, che finge di darsi la zappa sui piedi) una critica alla fruizione distratta dei contenuti audiovisivi, così come si è sviluppata negli ultimi anni, grazie ai siti peer to peer, prima, e alle sempre più numerose piattaforme di streaming (legale e non).

Nel suo didascalismo, la scena finale post (o intra?) credit rappresenta tutto ciò che una parte del pubblico cinetelevisivo sta diventando: bulimico, insincero, distratto.
La quantità sembra valere più della qualità (del luogo e dei modi in cui si guarda un film, per esempio), tanto che ci si azzarda a valutare apertamente un film o una serie tv e a condividere tale giudizio sulla piazza del web senza neppure aver visto correttamente un contenuto.

Quel che, alla fine del film di De Feo e Strippoli, mi ha fatto sorridere è che sia la stessa Netflix, che ha prodotto e distribuito in esclusiva il lungometraggio, a basare la sua attività sul concetto di quantità.
Nel saggio Streaming Revolution di Esther Covi (Dario Flaccovio Editore, 2020), fra le altre cose, ho letto che il costo dei passi falsi di Netflix (film e serie tv originali) è molto inferiore al costo di un fallimento per una rete tv o per una major. Potenzialmente, sul catalogo Netflix, non ci sono mai “problemi di spazio”. Film e serie tv Netflix possono restare a disposizione del pubblico praticamente per sempre. In pratica, prima o poi, un contenuto troverà il suo pubblico, grande o piccolo che sia.
Cioè, Netflix è disposta a proporre continuamente contenuti che possono essere scartati/valutati negativamente dopo una visione incompleta o distratta (o neppure avvenuta!) perché, per l’azienda, è economicamente conveniente. Il pubblico sembra sempre più assuefatto a questa tendenza, in cui il senso dell’attesa e il grado di attenzione rischiano di essere sempre meno allenati, in favore di… non so bene cosa. Il gusto di dire: “Ho visto tale film, tale serie tv”, per fare parte di un gruppo maggioritario? Per il piacere di smontare in maniera aprioristica il lavoro di qualcuno?

In questo senso, ho trovato altrettanto curioso che, proprio nei giorni precedenti alla pubblicazione di A Classic Horror Story sul catalogo, Netflix abbia iniziato a pubblicizzare La bottega della sceneggiatura, un’iniziativa nata in collaborazione con il prestigioso Premio Solinas e diretta a giovani autrici e autori che vogliono scrivere storie per la tv. Il motto è: “Quella serie era scritta così così? E il finale? Rivedibile? E allora fallo te. Davvero”.
Netflix sa quale “mostro” sta alimentando e ha deciso apertamente di giocare democristianamente su entrambe le sponde, quella dei “cattivi” e quella dei “buoni”.

A Classic Horror Story sembra dirci che il mainstream, in qualche modo, può essere un bel posto dove stare, se si è capaci di attirare l’attenzione.
Per quel che mi riguarda, questo film ci è riuscito: soprattutto, mi ha fatto divertire come non avrei mai creduto.

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